Kinnik ennak- Recensione
Il fumetto – rectius il mondo del fumetto – è principalmente comunità. Ora, non voglio lasciar intendere che tutto sia rose e fiori. Esiste qualche pietra d’inciampo volta a ricordare che non tutti i lettori (editori, scrittori, artisti) di fumetti siano un tripudio di qualità umane. Ci sono le invidie, c’è la gelosia e c’è la cattiveria. Tuttavia esiste un livello medio – statisticamente consistente – giocondo e gentile che ti spinge a continuare a frequentare questi lidi e che ti convince a guardare con fiducia alla “vita come arte dell’incontro”.
Questa doverosa quanto noiosa premessa va condita con un pizzico – anzi con una manciata o, forse, anche un pugno – di sicilianità e, ancor più specificamente, palermitanità. Ma, prima, facciamo un salto in Ungheria, da Frigyes Karinthy.
A questo punto sicuramente direte: “Ora, che diamine c’entrano il senso di comunità, la Sicilia, Palermo, Santa Rosalia ed un ungherese col nome difficile da scrivere?”. Vengo e mi spiego.
Non dubito conosciate la celebre teoria dei sei gradi di separazione. Facendola semplice, secondo quest’ipotesi sociologica, ogni individuo può raggiungerne un altro sconosciuto, avvalendosi di non più di sei intermediari, di cui conosce almeno il primo. Insomma, viviamo in un “mondo piccolo”, ancor prima che fosse globalizzato.
La teoria, che per Karinthy era una suggestiva scommessa quasi letteraria più che scientifica, nonostante i tentativi non avallata in modo soddisfacente da alcun modello matematico, trovò un riscontro empirico, solo successivamente, per mezzo di lettere e pacchetti postali vari, che diventeranno, nell’era di internet e dei social, email e richieste d’amicizia. Non ci crederete, ma per raggiungere qualunque persona sul globo servono tra le cinque e le sette persone. Qualcuno dice quattro, col sostegno di facebook et similia.
I palermitani che ci leggono adesso staranno esclamando “chi nicchi e nacchi”, ovvero “che c’entra?!”. Bene, avrete notato che – per assonanza – ci stiamo avvicinando al tema del giorno, ovvero “Kinnik ennak”, opera di Danilo Sbacchi, Michele Monte e Toni Sardina. L’espressione in questione indica una situazione, un oggetto o una persona totalmente estranea al contesto ed ha nobilissime origini, risalenti – secondo Andrea Camilleri – a “quis hic in hac”, locuzione appartenente al latino arcaico traducibile in “perché questa cosa dentro quest’altra?”.
Andando a svelare piano piano i misteri lasciati qui e là: il sottoscritto, come Danilo Sbacchi, è palermitano ed il capoluogo della conca d’oro è quel “piccolo mondo magico” dove per raggiungere un individuo sconosciuto basta al massimo un grado di separazione. Un vicino, un cugino, il portinaio, il dentista, l’avvocato, il panettiere, lo zio, il dirimpettaio. Vi basti quanto vi dico, per farvi comprendere come mi è pervenuto il volume di cui oggi scrivo.
Perché questa franchezza? In primo luogo perché ci piace giocare a carte scoperte, trovandolo più limpido e puro. In secondo, perché tutta questa sincera simpatia per le dinamiche sottese a questa recensione non comporteranno piaggerie. Non solo per la serietà con cui ci approcciamo – o tentiamo di approcciarci ad ogni opera -, non solo perché ogni recensione è frutto di un confronto di redazione, ma soprattutto per l’encomiabile atteggiamento con cui gli autori – per bocca di Sbacchi – ci hanno chiesto di leggere “Kinnik ennak”: la ricerca di un confronto. Anche a rischio che la valutazione fosse negativa, accettandone l’eventualità.
Il che mostra una sincera apertura al mondo – oltre che una certa sicurezza per i propri mezzi – e la consapevolezza che si possa crescere anche rischiando e cadendo, se è il caso; in quanto rimanendo nella propria comfort zone si corre il pericolo di incancrenirsi in un mieloso autocompiacimento.
Qualora siate arrivati fin qui, spero mi perdonerete per questo ulteriore aspetto infinitamente palermitano, fatto di merletti barocchi poco concreti, retaggio delle trascorse dominazioni spagnole. Prometto di abbandonare gli ampollosi farsetti e farmi più pragmatico.
In questo proposito mi aiuterà la storia di “Kinnik ennak”, che segue lo schema della fabula: abbiamo un incipit, uno svolgimento ed una conclusione. Una linearità che trova il suo valore aggiunto nel “less is more”, manifesto minimalista enunciato da Ludwig Mies van der Rohe nell’ambito dell’architettura, ma applicabile ad ogni aspetto della nostra vita. Non da meno sono la letteratura e la nona arte. Questo elogio della semplicità è una menzione al merito per il lavoro di Toni Sardina. Paradossalmente, infatti, in un mondo in cui la scrittura tende a complicarsi per darsi un tono, in cui il continuo rimando a flashback ed a tempi che si incrociano appare ipertrofico, la semplicità lineare diviene punk e rivoluzionaria.
La struttura favolistica, inoltre, ci incita a guardare la storia in filigrana, per coglierne la morale. Ogni favola ha un insegnamento che si nasconde nelle insenature di una storia che non possiede solo una lettura immediata.
Proprio qui interviene una nuova sorpresa: la vicenda non possiede una ed una sola morale, ma più morali o – se volete – una morale cangiante, caleidoscopica. Ognuno troverà la sua, anche diametralmente opposta rispetto a quella dell’osservatore più vicino, essendo l’opera un prisma che riflette la luce in maniera differente a seconda del punto di vista.
Pillole di trama potrebbero aiutarvi a seguire meglio il ragionamento. Siamo in Italia, in un futuro dispotico governato dall’Ingegnere, regolarmente eletto, beninteso, in quanto visto come l’uomo forte in grado di risolvere tutti i problemi del paese, placando ansie e bisogno di sicurezza. Sicurezza che viene garantita attraverso un sistema di sentinelle-robot e droni, che attingono informazioni grazie ai “visori”, occhiali tecnologici che ogni cittadino ha l’obbligo di indossare per ventiquattr’ore, salvo essere perseguito dalla legge.
Sicurezza in cambio di libertà, in quel rapporto inversamente proporzionale che è oggetto di baratto anche ai giorni nostri.
Esiste solo una sacca di resistenza: un condominio palermitano abitato da uno spettacolo di arte umana. Resistenza inconsapevole e disorganizzata, sia chiaro, portata avanti per motivi tanto nobili, quanto banali: amor di patria, riottosità alla disciplina, passione per le nuove tecnologie, rispetto per la propria dignità o, semplicemente, per non rassegnarsi alle storture dei “tempi moderni”.
Una morale-specchio, dove il riflesso tanto è più fedele tanto più entriamo in sintonia con la consapevolezza di leggere noi stessi. Nulla di attinente al singolo individuo o alla persona singolarmente intesa, ma afferente alle dinamiche del popolo-belva, quello che si lascia guidare dagli istinti più reconditi ed elementari.
In ordine sparso, infatti, ritroviamo in Kinnik ennak le tematiche oscure più care alla retorica populista, che tanto ed intramontabile piglio posseggono sui popoli italici. Il magnetismo dell’uomo forte, il valore irrinunciabile di una sicurezza mitizzata, messa in pericolo sempre e soltanto dal “nemico” più brutto e cattivo, che più facilmente può essere bersaglio della propaganda. E – ancora – ci sono le derive ultra-tecnologiche della nostra società, in cui sempre più si fa opprimente il giogo di smartphone, tablet e pc, mezzo attraverso il quale assecondiamo la dipendenza di rimanere perennemente connessi.
Ognuno di questi macro-temi è inserito a pizzichi, leggero come una spolverata, senza pretese. Una scelta narrativa, non per carenza di mezzi, ma per mantenere la narrazione lieve, essendo l’opera concepita per intrattenere.
Intrattenimento che passa dalle esplosioni, dalle tute robotiche, dai missili, dai robot crivellati di colpi, da un ritmo che si fa sempre più incalzante in una climax di azione irrefrenabile.
Shockdom riconosce all’opera una veste editoriale di tutto rispetto- mostrando la consueta attenzione e propensione per gli artisti emergenti -, con un cartonato a colori che richiama, per dimensioni, le bande desinnèe francesi. Un vestito che calza a pennello per il lavoro di Sbacchi, il cui stile appare già maturo e ragionato, creando ordine nel groviglio di esperienze e contaminazioni che caratterizza il suo percorso artistico.
Il tono del caricaturista è – infatti – assolutamente presente, messo al servizio di una caratterizzazione estetica dei personaggi che li rendere riconoscibili a colpo d’occhio. Una riconoscibilità estetica che si fa leggibilità del soggetto, lasciandone trasparire doti fisiche, caratteriali e morali. Un tratto che diventa quindi narrativo in sé, rendendo la vita più semplice – potenzialmente – ad ogni sceneggiatore.
Lo stile, quindi, si mantiene ben distante dal realismo, riparando nel cartoonesco e nel grottesco, facendo esplodere il potenziale di questa forma espressiva nelle dinamiche di movimento e combattimento, rese ancora più rapide e credibili. Non è affatto difficile, con uno sforzo di fantasia che si fa immediatamente augurio, immaginare Sbacchi calcare palcoscenici internazionali.
Lavoro sublimato dal perfezionismo dei colori di Michele Monte che entra in sintonia con le necessità grafiche e di sceneggiatura, raccontando, per mezzo del colore, le atmosfere cupe di questo dispotico futuribile paese.
Insomma, “Kinnik ennak” è ciò che promette di essere: un’opera punk di puro intrattenimento con un retrogusto amaro e riflessivo, che lontanamente ci ricorda i vizi che si nascondono fra le ombredella forma mentis comune dell’italiano medio.