Il Regno – Samuel Stern n. 17
La cieca razionalità cui siamo indottrinati fin da bambini ci ha spogliato di molti strumenti cognitivi. Indipendentemente dalle proprie e personali convinzioni etiche e religiose, troviamo sempre più complesso percepire “oltre”. Oltre da noi, oltre dal nostro corpo, oltre dal nostro comprendonio.
“Il Regno” sembra volerci ricordare la grandezza di quelle generazioni non solo più sensibili al soprannaturale o all’inspiegabile, ma anche consapevoli che i confini della realtà non si esauriscono nel campo della percezione dei nostri cinque sensi. L’arduo compito si declina nel racconto di luoghi e “non luoghi”.
La vicenda vede Samuel impegnato nel tentativo di coadiuvare le indagini del funzionario di polizia Cranna, impantanato nelle sabbie mobili di un’indagine volta a sgominare quella che sembra un’associazione per delinquere finalizzata alla produzione di snuff movies. La fantasia incrocia la realtà, trattandosi di un asserito genere cinematografico che cattura immagini di reali torture o omicidi, senza l’ausilio di effetti speciali.
Riprese di reati efferati che nulla hanno effettivamente a che spartire col cinema e con l’arte. Ogni video di questo tipo rende sempre difficoltoso, a maggior ragione nell’epoca del progresso tecnico e della computer grafica, la piena separazione dei prodotti creati ad arte per apparire snuff – e divenire virali – dai video che riproducono tali nefandezze dal vero.
Anche nel caso de “Il Regno”, titolo di tale produzione amatoriale, di natura seriale, vengono inizialmente covati questi dubbi, definitivamente dissipati dalla rocambolesca fuga dal set di Josy Crandall, studentessa di cinema e regia, mutilata e privata di due dita durante le riprese. Il coinvolgimento di Stern, da parte del riluttante Cranna, è dovuto all’apparente possessione della giovane donna, lasciatasi ad una crisi isterica alla vista di un prete, di cui essa stessa aveva chiesto il conforto. L’inchiesta porterà i protagonisti – cui si aggiungerà, per brevissimi tratti, anche padre Duncan – nella periferia malfamata di Edimburgo, dove uno spacciatore noto come “il filosofo” gestisce la piazza di spaccio di una sostanza che permette alle anime più sofferenti di estraniarsi, raggiungendo il Regno, che scopriremo essere Legione, già conosciuto come luogo di afflizione dei demoni, non da questi gestito, ma da loro popolato come prigionieri.
Quest’ultimo aspetto è il nucleo della narrazione, un prisma che ci fornisce una miriade di riflessi filosofici, sociali ed antropologici. I dannati – umani – del Regno, infatti, rimpolpano le fila degli abitanti di Legione, abbracciando volontariamente tale sofferenza in chiave liberatoria da un dolore ancora più grande: la miseria umana della loro vita “terrena”.
Nel caso di Josy la scelta trae le mosse dall’umiliazione subita dal Prof. Hollander, insegnante del corso universitario di cinema frequentato dalla giovane, nonché archetipo del cattivo maestro, reo non solo di averla illusa con aspettative sentimentali al solo fine di possederla, ma anche di avere calpestato ogni velleità artistica della ragazza. Una forma di vile umiliazione dalla quale la studentessa non riesce a risollevarsi, una morte morale e spirituale che vede come unico sollievo l’ottundimento dei sensi ed il supplizio inflitto da Legione.
Sottesa leggiamo una raffinata forma di critica sociale, non sfacciata, ma nemmeno occulta. Il dito viene puntato contro l’emarginazione dei quartieri ghetto, a due passi da noi. Una sofferenza sociale fatta di abbandono e disinteresse, dove le droghe diventano molto spesso l’unica risposta in grado di alleviare le sofferenze degli ultimi. Dimenticate le droghe di tendenza, quelle dopanti o che – apparentemente – migliorano le prestazioni o le interazioni sociali, guardate agli stupefacenti degli esclusi, quelli a buon mercato: crack, metanfetamine, cristalli o, addirittura, nel Terzo mondo, alla colla.
L’Inferno, quindi, è il nostro mondo o, meglio, esistono livelli così bassi dell’esistenza che rappresentano già una dannazione in terra, così come esistono luoghi tanto infernali da “toccarsi” con gli Inferni ultraterreni. In tal modo il Regno e Legione si sfiorano diventando la stessa cosa. Nei settecento anni dalla morte del Sommo Poeta, il pensiero non può non andare all’Inferno dantesco, luogo tanto spirituale e soprannaturale, quanto fisico e concreto.
Samuel si fa portavoce del nostro disagio nell’afferrare questa ambivalenza. Angus, viceversa, veste i panni di Virgilio, nel sottolineare, con fare lieve e candido, la nostra inadeguatezza: l’uomo moderno non riesce lì dove riusciva l’uomo medievale – e non solo -, cioè nell’accettare che esistano luoghi interni ed esterni, spirituali e fisici, dell’anima e tangibili allo stesso tempo.
Massimiliano Filadoro e Marco Savegnago appaiono centrati ed equilibrati, trovando un bilanciamento tra i riferimenti filosofici e la concretezza, tra ricostruzione onirica e linearità della narrazione; lasciamo a voi il compito di imputare all’uno o all’altro i vari stili narrativi, in un groviglio ovviamente inscindibile ex post.
Vincenzo Acunzo, ai disegni, è esordiente sulla testata, ma possiede un carisma da veterano. Il bianco ed il nero non si mescolano quando la narrazione si svolge sul piano del concreto, producendo una narrazione grafica per contrasto netto. Le ombre sono presenti solo nelle proiezioni sovrannaturali, quasi i demoni fossero incarnati dalle ombreggiature stesse. Questo espediente rappresenta un vero colpo da maestro.
Menzione al merito agli sceneggiatori per l’abilità di riuscire a popolare, caratterizzandoli sempre meglio, la schiera dei comprimari. Cranna dimostra il carattere del poliziotto sopra le righe ed i regolamenti, ma tanto sincero quanto idealista, dietro lo scudo del cinismo. Più in generale, inoltre, Bugs fornisce una grande lezione narrativa sulla sostenibilità e coesistenza di continuity orizzontale e continuity verticale, dove la prima si alimenta dei filoni legati alla biografia di Samuel e della sotterranea lotta tra bene e male, con schieramenti più ampi di quello che ci aspettiamo, mentre la seconda vive della leggibilità di ogni albo a sé stante.
“Il Regno” ci racconta, quindi, l’antefatto di una possessione, la nascita di una crepa dell’anima nella quale non si insinua un demone, probabilmente perché tale spazio viene tempestivamente colmato da un male di vivere tanto grande da essere bastevole l’auto-afflizione, senza la necessità di alcun intervento esterno.
Non a caso i riferimenti più pregnanti sono quelli al poeta T.S. Eliot ed al “Mito della Caverna” di Platone. Il primo, infatti, pone al centro della sua poetica l’alienazione degli animi sensibili, alla deriva nel mare del rifiuto della società in cui vive. Nulla di diverso dal rigetto che le anime viventi di Legione provano per la miseria della loro vita.
A Platone lasciamo il commiato. Le ombre proiettate sulla parete della caverna rappresentano la “realtà” di coloro che hanno vissuto da sempre prigionieri, immobilizzati e rivolti verso questo fittizio spettacolo. A voi il giudizio ultimo: siamo i prigionieri o i carcerieri, siamo noi gli spettatori o i creatori delle ombre?