Picard al cubo (Borg, ovviamente)
Prime Video ha trovato un buon modo per occupare i miei venerdì… e pure sfruttando il mio peggior difetto: la nostalgia.
Qualche parola sulla serie di Picard l’avevo già scritta in occasione della fine della seconda stagione, quando il commovente episodio finale mi aveva convinto addirittura a rivalutare un personaggio problematico da gestire (in tutti i sensi) come Q; adesso che si è conclusa anche la terza ed ultima stagione sarebbe strano non tornassi a sproloquiare sulle mie amate generazioni di esploratori spaziali.
La cavalcata triennale dell’ammiraglio Jean Luc Picard ci ha accompagnati attraverso i ricordi dei protagonisti e le scelte che ne hanno meglio definito o sviluppato il carattere e ci ha portati ad un nuovo inizio – perché tanto ben si sapeva che certe storie, come certi amori, non finiscono mai – con e per generazioni più recenti di eroi (e di spettatori, verrebbe da sperare).
Ripensando alla trilogia dedicata allo storico comandante dell’Enterprise ho un ricordo non particolarmente esaltante della prima stagione, incentrata forse più sulla figura di Data e dei suoi simili che su una storia corale dell’equipaggio della flotta stellare; il secondo ciclo di episodi, che è stato quello meno amato dalla critica, per me che sono sempre in grado di andare contro il senso comune – e quindi quasi sempre contro il senso corretto – mi ha invece toccato profondamente con il suo finale meravigliosamente commovente (andate a rileggere gli sbrodolamenti che scrissi allora) anche se forse riconosco aver avuto un taglio troppo intimo e personale. Questa terza stagione invece trovo sia stata un vero trionfo della nostalgia, a totale vantaggio dei vecchi appassionati di Star Trek che si sono crogiolati tra i sospiri ed i ricordi di avventure di quasi trent’anni fa.
Perché, non si può non ammetterlo, questa terza stagione pur introducendo gli eredi della “Next Generation” degli anni novanta del secolo scorso sembra essere in realtà più che un trampolino di lancio per nuovi personaggi, una lunga passerella per i vecchi -nel senso più vero del termine – protagonisti del passato. Ciò nonostante, ed anzi accettando quasi con piacere la cosa, ho goduto tantissimo delle storie raccontate in questi dieci episodi dove in un modo davvero improbabile un gruppo di anziani ex dipendenti statali riesce a salvare nuovamente l’intero universo in un modo che mi ricorda tantissimo i racconti dei “vecchi comici spaventati guerrieri” di Stefano Benni.
Non nego di essermi quasi commosso in alcuni momenti all’apparire degli eroi di trent’anni prima inevitabilmente invecchiati – ed a volte anche male – ma che ai miei occhi godevano ancora dell’aura magica di una eterna giovinezza che mi impediva di vederli come in realtà sono: degli anziani pensionati poco adatti a qualsiasi atto più eroico del riuscire a non bagnarsi i piedi facendo pipì…
In queste ultime puntate molte sono state le piccole cose che mi hanno reso piacevole la visione della serie; ho trovato molto delicato il modo di introdurre a poco a poco tutti i vecchi protagonisti, in particolar modo proprio Data che ha antropomorfizzato gli allarmi del laboratorio da lui presidiato sfruttando i suoi ricordi del tempo trascorso sull’Enterprise ed è stato altrettanto godibile vedere il klingon Worf dedicarsi alla meditazione ed il primo ufficiale Riker raccontare di sé e della sua vita insieme al consigliere Deanna Troi funestati dalla perdita del figlio, senza dimenticare Geordi La Forge, ora alle prese con la difficile gestione di figlie ormai grandi con le loro decisioni e scelte di vita dure a volte da accettare da parte di un genitore…
E poi ritornano ancora i Borg, finalmente non quelli amichevoli della seconda stagione, anche se si sono evoluti fin troppo e quelli che mi entusiasmano sono alla fine dei conti anche loro quelli più vecchi e malandati costretti a lavorare anche dopo la pensione in un vecchio cubo-astronave (la cui distruzione ricorda forse un po’ troppo quella della “Morte Nera” degli amici di Star Wars). Che ci fossero loro dietro la minaccia dei Cambianti ed il nuovo arrivato Jack (Picard), poteva essere facilmente intuito dal fitto e continuo richiamo alle ramificazioni rosse ed al suadente tono della voce femminile che tanto tormentava il figlio del protagonista ma nondimeno è stato per me un ulteriore piacevole scoperta per tutta la serie di ricordi che questo fatto si porta appresso.
In mezzo a tutta questa vicenda, come ben sanno i trekkers, si trovano disseminate varie perle di saggezza – o forse di banale buon senso – come la rinascita di Data che rivive grazie al fatto che il fratello cattivo Lore si impossessa dei suoi ricordi finendo per diventare lui stesso Data, a sottolineare che sono proprio i ricordi di ciò che amiamo a renderci le persone che siamo (e, piccolo incrocio tra passioni, tanto mi sembra di sentire in questo la voce di tutta la produzione del fumettista spagnolo Paco Roca) o come i momenti – peraltro rari – di pentimento per la sorte dei Cambianti durante la Guerra del Dominio, colpiti con armi mirate ad eliminare selettivamente una specie. Proprio a questo proposito uno dei personaggi migliori di questa terza stagione è stato il comandante Vadic, cambiante dal passato intrigante e che avrebbe meritato forse un approfondimento – e certamente una fine – migliori.
Non mancano certo punti deboli nello sviluppo della storia a partire dalle quisquilie come il nome del presidente della federazione Checov (proprio Anton doveva chiamarsi?) per arrivare al finale con salvataggio “all’arrivano i nostri” e poco credibili difficoltà dei Borg ad impossessarsi dei comandi dell’ultima base a difesa della Terra pur avendo l’intera flotta stellare a propria disposizione.
Ma forse ciò che maggiormente mi ha lasciato perplesso è stata la gestione del rapporto tra Picard ed il figlio e la loro conseguente fuga dalla mente alveare e dal cubo Borg. Questa terza stagione è incentrata sul tema della paternità, sui rapporti che legano la figura del padre con quella dei figli; pur non aspettandomi un approfondimento puntuale e profondo, diversi spunti nelle parole di Riker e Deanna Troi o nei discorsi tra Picard e Beverly Crusher avevano indicato uno sviluppo non troppo banale del tema stimolando lo spettatore a porsi domande ed a ragionare sulle scelte fatte da una parte e dall’altra. La conclusione della storia, con Picard che rientra nella mente-alveare Borg (che tanto l’aveva sconvolto ai tempi dell’assimilazione e della trasformazione in Locutus) per liberare il figlio Jack/Vox e che con un discorsetto scontato e quasi scolastico lo convince a ribellarsi alla Regina salvando a sua volta il padre e venendo con lui teletrasportato sull’Enterprise D (praticamente poco più di un pezzo da museo) nel più banale dei finali, davvero non è riuscita ad entusiasmarmi neppure un pochino risultando anzi esageratamente scontata e poco credibile (e, parlando di Star Trek, già ce ne vuole…).
Sono fermamente convinto che un sacrificio reale da parte di Picard per salvare suo figlio sarebbe stato un modo più realistico per concludere la serie e soprattutto un migliore lascito ereditario come insegnamento su cosa significhi amore verso i propri figli; certamente però sarebbe stato un modo troppo cruento di concludere la storia di uno dei personaggi più amati della saga di Roddenberry e di sicuro poco sarebbe piaciuto agli appassionati di una serie che della speranza ha sempre fatto il proprio credo e la propria bandiera (non a caso anche il presidente Chekov – citando le parole del padre – nel suo ultimo, sofferto discorso ricorda che “La speranza è l’ultima a morire”).
Il concetto di famiglia è ampiamente analizzato in questo finale dove viene anche palesemente affermato da Riker che l’equipaggio dell’Enterprise – e sicuramente anche la comunità dei trekker – è appunto tale e dunque non può che comportarsi di conseguenza senza mai arrendersi né lasciare qualcuno solo al proprio destino… affermazione “un tantinello” esagerata e molto cinematografica ma che risulta almeno credibile vedendo come in effetti alla fine i vecchi personaggi rimangano uniti nel loro percorso di uscita di scena ma nel frattempo abbiano preparato gli eredi – biologici e non – ad affrontare, anch’essi uniti in una nuova famiglia, le future avventure. Insomma una nuova Next Generation. Discorso molto banale senza dubbio ma con un messaggio positivo che non mi sento di sminuire nonostante la semplicità con cui viene affrontato; ogni tanto fa bene al cuore vedere qualcosa dove i buoni vincono senza cedere alla cattiveria perdendo il candore dei propri ideali.
In conclusione questa terza stagione mi ha divertito e conquistato pur nella sua leggerezza (che forse qui è un po’ superficialità) ma probabilmente per motivi difficilmente condivisibili da nuove generazioni di spettatori: forte per me è stato il richiamo della nostalgia di quando avevo trent’anni e guardavo le prime avventure di Picard e soci e quindi ora nel rivedere questi anziani che giocano a fare gli eroi mi scende una lacrima di commozione non perché queste nuove storie siano speciali ma perché attraverso il ricordo di quello che loro sono stati mi illudo di tornare ad essere il ragazzo che anch’io non sono più. Due sono infatti le scene di queste dieci puntate che mi sono rimaste profondamente impresse, rimandando entrambe al discorso del tempo che, inesorabile, passa: Riker che dice a Picard “Tu con le mani che tremano ed io con le ginocchia a pezzi” (vero, Pier?) ma soprattutto la frase del protagonista della serie che piacerebbe anche a me avere la possibilità e la forza di dire alla fine del viaggio “…è stato un onore servire con tutti voi”.
Lunga vita e prosperità.
Recensione de Il candido Umberto
Star Trek: Picard (terza stagione) Prime Video e Paramount +