“Salve, sono il Dottore… in pratica, scappate”
(Undici e Dodici, i Dottori di Moffat)
Ho il chiaro e preciso ricordo di quando a sei anni le mie nottate erano turbate dai ricordi di un programma televisivo in cui robot “inarrestabili” o insetti giganti che minacciavano l’umanità venivano sconfitti da un bizzarro personaggio con una lunghissima sciarpa che tutto poteva sembrare tranne che un eroe in grado di salvare il mondo. Questo è stato il mio primo incontro con “Doctor Who”, personaggio iconico della fantascienza inglese che da subito ha affascinato un bambino innamorato di tutto quello che era futuro e mistero come “il candido di sei anni” (ok, lo ammetto, ero anche un po’ pavido perché non è proprio da cuor di leone lasciarsi spaventare dai mostri televisivi di quel periodo).
Moltissimi anni sono trascorsi, poi, fino al momento in cui mi sono imbattuto nuovamente nelle avventure di questo “Signore del tempo” dedito a mettere una pezza a qualsiasi problema spazio-temporale; con qualche anno in più ho potuto scoprire che l’uomo con la sciarpa che ricordavo era la quarta incarnazione di un essere che ha la capacità (limitata o forse no) di rigenerarsi, cambiando aspetto ed in parte anche personalità e che le sue scorribande attraverso il tempo e lo spazio duravano già dagli anni sessanta, continuando fino ad oggi pur con una lunga pausa negli anni novanta. Dalla ripresa della serie – nel 2005 – le rappresentazioni del Dottore hanno assunto via via aspetti sempre più complessi ed articolati trasformando la serie in una delle più interessanti per varietà e profondità di argomenti trattati, a mio parere soprattutto con i personaggi dell’undicesimo e del dodicesimo Dottore.
Ed ecco che, senza un minimo di suspense, subito ho rivelato quali siano le mie preferenze nell’ambito della “annosa quaestio” di quale sia il miglior Dottore (considerando il Dottore della guerra fuori concorso, altrimenti vincerebbe a mani basse); eppure così dicendo in un certo qual modo ho anche chiarito quanta importanza abbia, nel mio apprezzare un prodotto televisivo, la capacità dello sceneggiatore di allestire una trama interessante e ricca di spunti di meditazione associata ad una scelta ottimale degli attori cui affidare i vari ruoli. Lo scrittore che ha condotto il Dottore nei sei anni di avventure dell’undicesimo e dodicesimo Dottore è infatti sempre lo stesso: Steven Moffat, autore talvolta controverso ma che innegabilmente io amo molto per la sua capacità di trasmettere emozioni intense con i suoi racconti.
Credo che da subito ciò che maggiormente mi ha affascinato di un personaggio come il Dottore sia la rarissima prerogativa di essere un eroe assolutamente normale, un difensore del bene e del giusto che si batte armato solo di un cacciavite (sonico) e del desiderio di risolvere qualsiasi conflitto senza spargimenti di sangue – pur senza dimenticare che nel corso delle sue numerose incarnazioni è stato (sarà) anche il Dottore della guerra – e cercando una soluzione ottimale per la crescita in armonia di ogni forma di vita esistente. In un panorama in cui gli eroi, pur positivi e dediti al bene, per difendere l’umanità picchiavano come fabbri a bordo di giganteschi robot con gli occhi a mandorla o comunque cercavano di ristabilire la giustizia con la legge del più forte, questo omino apparentemente molto ordinario ha tracciato una via ben diversa per difendere libertà e diritti di qualsiasi creatura e proprio grazie a queste sue caratteristiche si è fatto strada nel mio animo di ragazzino.
Ho spesso notato nello sviluppo sia delle trame orizzontali che di quelle verticali una magnificamente leggera semplicità di evoluzione e narrazione tale da poter quasi essere scambiata per scarsa profondità o valore delle storie raccontate. Al contrario reputo che questa sia quasi un’impronta tipica e voluta di tutta la produzione del Dottore, ossia il raccontare avvenimenti che, pur nella loro fantascientifica irrealizzabilità, appaiano come assolutamente plausibili e quasi banali; in realtà sempre indimenticabili sono il modo di risolvere qualsiasi problema ed i discorsi con i quali ogni Dottore riesce a rendere giustificata, inevitabile e positiva qualsiasi sua soluzione.
E di conseguenza penso che Steven Moffat sia stato uno degli autori che meglio è riuscito a rendere questa caratteristica del Dottore, immortalando il suo essere un “uomo giusto” e rendendolo ben evidente non con lunghe narrazioni ma con semplici frasi ed azioni fortemente simboliche e che restano facilmente ed a lungo impresse nella memoria dello spettatore.
Nel 2010, anno dell’inizio di Steven come autore del Dottore, la saga del Signore del tempo aveva riacquistato un discreto seguito di appassionati; con il nuovo sceneggiatore arriva anche un nuovo e giovane interprete del protagonista, Matt Smith e nuovi sono anche i suoi amici ossia Amelia Pond e Rory, il suo fidanzato.
Nelle mani di Moffat i tre – anche se Rory in effetti risulta essere un poco in secondo piano – danno vita ad uno dei gruppi più interessanti per quanto riguarda lo sviluppo dei rapporti interpersonali e di responsabilità nei confronti del resto dell’universo. Più intimista sarà la successiva incarnazione del Dottore con un Peter Capaldi più introspettivo ma altrettanto interessante e profondo, forse anche grazie alla figura di Clara, a mio gusto la migliore compagna di avventure che il protagonista abbia avuto (e mi perdonino gli appassionati di Rose).
Mi piacerebbe quindi rubare un po’ del vostro tempo per ricordare (o suggerire a chi non avesse visto le puntate in questione) alcuni momenti, episodi o semplici scene rigorosamente in ordine sparso, che mi hanno particolarmente colpito ed insegnato ad apprezzare sempre più il viaggatore venuto da Gallifrey.
Si può tranquillamente iniziare dalla trilogia del Dottore (Il nome del Dottore, Il giorno del Dottore ed Il tempo del Dottore). Un filo di malinconica speranza sembra unire questi tre episodi speciali in cui l’essenza stessa del protagonista, dedito alla salvaguardia dell’universo intero, viene messa in dubbio in un certo qual modo anche dal Dottore; sono proprio i suoi amici, in tutti e tre gli episodi, a riportare sulla strada giusta un protagonista in crisi con sé stesso ed incapace in quei momenti di vedere l’immensa importanza – ottenuta con fatica e rinunce – che invece riveste la sua figura per la salvezza del creato. Vedere Clara al termine de “Il nome del Dottore” gettarsi nel flusso temporale del protagonista ed aiutarlo in tutte le sue incarnazioni è una scena che sempre mi spinge a riflettere su quanto sia grande l’importanza degli aiuti che, a volte anche impercettibilmente, ci danno le persone che ci vogliono bene; così come bene al Dottore vuole Rose, manifestazione fisica di un’arma senziente capace di distruggere l’universo. E’ “Il giorno del Dottore” – il giorno in cui è impossibile fare la cosa giusta – ma insieme agli amici che gli restano accanto fino alla fine anche questa tragedia può essere scongiurata… peccato che a lui non ne resti memoria. Un grande William Hurt interpreta uno dei Dottori più tormentati di tutta la serie, capace quasi di voltare le spalle a tutto il bene compiuto fino ad allora ma che alla fine si dimostra in grado di salvare l’universo una volta ancora.
“Il tempo del Dottore”, con l’ultima apparizione di Undici, è sempre capace di farmi inumidire gli occhi non tanto per lo stravolgimento delle regole, base fondante del Dottore, ma per il breve scambio di battute con Clara che gli consiglia di fuggire, ricordandogli che per una volta si potrebbe concedere di pensare solo a sé stesso ed alla quale lui risponde che anche la salvezza di una sola vita è una vittoria e che sente come sua responsabilità ogni singola esistenza che possa essere aiutata. In questo caso la normale preoccupazione di un’amica serve a rafforzare la volontà di agire sempre per il bene dell’universo.
Ho anche trovato molto delicato il fatto che a tenere compagnia al Dottore per più di trecento anni su Trenzalore sia una testa di cyberman modificata, suggerendo quasi che sia proprio uno dei suoi più grandi nemici a diventare il suo compagno d’avventure più longevo e che dunque non esista un’assoluta impossibilità di convivenza pacifica neppure tra antagonisti di lunga data.
La meravigliosa poesia di “Vincent ed il Dottore” e la sottile indagine psicologica del “Complesso di Dio” rendono questi due episodi – anche se non scritti da Moffat – difficilmente ignorabili; da una parte abbiamo il riconoscimento del valore dell’intelletto creativo dell’uomo e la sua ricompensa, svelata dal modo con cui il Dottore premia uno dei più grandi artisti della storia (Vincent Van Gogh), dall’altra un interessante approfondimento dei legami che uniscono il Dottore ed i suoi compagni di avventura… sembrerebbe infatti facile vedere in lui un desiderio di esplicitare la propria superiorità e negli altri un pigro affidarsi completamente alla guida di chi sembra saperne di più. In realtà tutta la serie ci dice ben altro, ossia che solo dalla comunione degli sforzi del Dottore e dei suoi amici si può avere la soluzione ad ogni problema e che il rapporto, dunque paritario, che si crea tra tutti i protagonisti è proprio di reciproco sostegno e di necessità comune.
Pur avendo una trama davvero arzigogolata, “Gli angeli prendono Manhattan” è uno degli episodi che ogni volta mi commuove per il senso di dedizione e di amore reciproco che permea tutta la narrazione. Ogni personaggio sceglie di sacrificarsi e sacrificare la propria felicità per far sì che gli altri possano stare meglio: Rory viene preso mentre cerca di salvare Amy, Amy si lascia catturare per non lasciare solo Rory ed il Dottore deve accettare di perdere i suoi amici per non creare un paradosso temporale in grado di distruggere New York. Tutti si rassegnano, in un modo molto umano e per nulla gallifreyiano, ad accettare – pur senza rinunciare a lottare – il proprio destino cercando di godere a pieno delle nuove possibilità create dalla diversa linea temporale.
E come dimenticare quando il dodicesimo Dottore, un Peter Capaldi davvero adatto ad impersonare una figura di protagonista più introspettivo e malinconico rispetto al suo predecessore, decide di salvare uno dei suoi nemici più pericolosi – Davros, il creatore dei Dalek – instillando in lui il seme della pietà, sentimento in grado di salvare interi popoli e cambiare in un certo senso tutto lo sviluppo della storia degli avversari più crudeli dei Signori del Tempo? E tutto questo spinto dalla necessità di salvare la sua amica Clara (“L’apprendista mago”). E’ un continuo rimando a decisioni e comportamenti che per poter ottenere un risultato di bene comune devono essere fatti senza lasciarsi attirare dal tornaconto personale ed immediato ma guardando ad un fine più lontano e più ampio.
Ed è proprio del dodicesimo Dottore l’episodio che forse preferisco: “Mandato dal cielo”. Una storia in cui il Dottore è l’unico personaggio presente e che a mio parere ne definisce in modo puro e definitivo lo spirito. Un “uomo” che si batte senza mai arrendersi e senza tenere conto dei danni che può subire, per miliardi di anni continuando a cercare di liberarsi per poter trovare un modo per salvare Clara. Nel vortice delle infinite morti che deve subire in un tempo così smisuratamente lungo, il sentimento che leggo in ogni istante di narrazione è quello di una persona che identifica sé stessa nella sua missione di aiutare il prossimo, incurante del prezzo da pagare per riuscire nel proprio intento, nel seguire la propria vocazione. Un elogio della volontà di essere una persona buona nascosto in una storia di fuga.
Quanto ho amato Missy, incarnazione femminile del Maestro, nemesi e lato oscuro del Dottore stesso! A lei è legato uno dei ricordi più belli che ho dei discorsi del mio eroe preferito. Le parole che rivolge appunto ai due avversari sono una sorta di testamento e confessione al tempo stesso: “vincere? Credi sia questo l’importante? … Io non faccio questo perché voglio battere qualcuno o perché odio qualcuno… faccio quello che faccio perché è giusto, perché è dignitoso, e soprattutto perché è gentile” (“La caduta del Dottore”). Accostare concetti come giustizia, dignità e gentilezza – in un mondo dove tutti sembrano andare nella direzione opposta – trovo sia un atto davvero rivoluzionario nel termine più positivo e liberatorio del termine e non potevo che esserne conquistato… ed a quanto pare non sono stato l’unico a riconoscere il valore di questi pensieri.
Ed infine poche volte ho trovato parole più dolci e poetiche di quelle pronunciate nei commiati alle loro incarnazioni dall’Undicesimo e Dodicesimo Dottore; nel momento della rigenerazione ogni protagonista ci abbandona con un discorso che unisce il benvenuto dato alla nuova forma con la sintesi degli insegnamenti appresi durante le proprie avventure, quasi fosse un testamento ed un invito a seguire la strada tracciata lungo i sentieri del Bene.
“Ricorda: l’odio è sempre sciocco e l’amore è sempre saggio […] Ridi tanto. Corri veloce. Sii gentile. Dottore, ti lascio andare”. Con queste frasi ha termine la vita del dodicesimo Dottore e non è un caso che ritornino i termini usati nel discorso con il Maestro e Missy, quasi a voler definitivamente confermare come tutto l’operato di questa incarnazione sia stato rivolto alla gentilezza verso ogni forma di vita ed all’amore per tutto il creato.
Ma ancora una volta sono le parole di Undici a rimanermi maggiormente impresse… il suo è un commiato infinitamente umano, che riflette in tutto e per tutto quello che può essere il momento dell’addio di una persona comune, con la presa di coscienza che ogni singolo attimo vissuto è stato importante e meraviglioso e con la promessa di ricordare per sempre “quando il Dottore ero io”. E poi l’addio all’uomo stropicciato (come i Pond chiamavano il Dottore) dato con un “buonanotte” da Amy rimane un momento per me estremamente delicato e toccante.
Spero che la lettura di questi pensieri in libertà non vi abbia fatto perdere troppo tempo ma, se anche così fosse, non preoccupatevi: basterà salire sul TARDIS, rimettere indietro le lancette dell’orologio e tutto questo spreco di secondi non sarà mai esistito… ah, e non stupitevi se entrando nella cabina telefonica vi accorgerete che “è più grande dentro”. E’ così che funziona.
P.S. (ovviamente scherzando): a tutti coloro che incensano il decimo – che però, lo ammetto, può vantare una delle frasi più intense che siano state pronunciate in una serie televisiva (“Sto bruciando un sole soltanto per dirti addio”) – vorrei ricordare che è all’undicesimo Dottore che capita la fortuna di avere due delle avventure più belle, e per certi versi poetiche, di tutta la saga, ovvero quelle scritte da Neil Gaiman… solo la mente geniale dello sceneggiatore di Sandman poteva immaginare un imperatore nano che si finge semplice soldato (“Incubo Cyberman”) o poteva vedere la figura del TARDIS, spunto di riflessione illuminante ed acutissimo, come figura femminile e vera compagna eterna ed indissolubile del Dottore (“La moglie del Dottore”). Chi può dunque dire che non è davvero l’undicesima la migliore incarnazione del nostro Signore del Tempo preferito?
Doctor Who (stagioni 5-10)