I Cavalieri dello Zodiaco di Netflix: la decostruzione di un mito
Questa recensione non avrei voluto scriverla. Gli indici erano molti, alcuni più consueti di altri. Il primo – ma qui giochiamo in casa – era trastullarsi sul filo del rasoio delle perentorie scadenze fissate dal Candido – ed apparentemente amabile, salvo utilizzare metodi da regime del terrore per tenerci in riga – Umberto.
Ma ripeto, fino a qui, nulla di nuovo sotto il sole. Temporeggiare e schivare le dead line è un marchio di fabbrica, memore dei generali russi che, aspettando l’inverno, hanno sopraffatto ogni invasore. Certo, qui si rischiava grosso, anche perché dal mio – evitabilissimo – apporto dipendeva anche l’equilibrio numerico – perché solo numero faccio – degli articoli necessari per montare su lo spettacolo della settimana dell’animazione.
Tuttavia, la vera ragione del mio cincischiare era molto più psicologica, carsica ed oscura: io a “I Cavalieri dello Zodiaco” (così si chiamano ancora) ho voluto troppo bene. Sono – insieme a “Ken il Guerriero” e a “Le tartarughe ninja” – uno dei capisaldi culturali che ci ha permesso di non cedere alla sirene delle droghe e dello spaccio giovanile davanti alle scuole, tanto temuti nei primi anni ’90.
Ora, gli ho voluto così bene da non voler – fino all’ultimo – scrivere questa recensione negativa. Come quando durante un’apocalisse zombie non trovi il coraggio di sparare ai tuoi cari diventati non morti. Sai che è la cosa giusta da fare, ma non ci riesci in quanto le vestigia putrefatte di un amore ti frenano in balia del ricordo di quello che è stato e non sarà più.
Orbene, anche qui parliamo di corpi putrefatti – narrativamente parlando – per quanto in armatura da cavaliere di bronzo, né più e né meno. Ed in fondo, se approcciamo in maniera filosofica ed allegorica il concetto stesso di marcio camminante, non possiamo che notare quanto questo sia un mero residuo di ciò che si era nella vita precedente, un detrito capitalistico di un vero essere pensante, mosso da una sola istintiva brama: cibarsi o – seguendo la metafora – consumare.
Insomma una riduzione ai minimi termini della fu umanità.
Ecco la serie Netflix di Saint Seiya ha in comune con i non morti la riduzione ai minimi termini. L’anime originale è infatti spogliato e depredato di ogni forma di profondità introspettiva, rendendosi un corpo narrativo emaciato e scarnificato. Un racconto fatto per sottrazione per mezzo del quale la vicenda appare uno spettacolo di marionette mosso da un pessimo burattinaio.
Dietro alla decostruzione di un mito, diranno quelli bravi, c’è il cambio di target voluto dal colosso dello streaming americano. “Non è fatto per te”- diranno – “sentimentale trentenne che non sei altro; il prodotto è destinato ai bambini preadolescenti occidentali”. Ora, vuoi vedere che questi mitologici preadolescenti occidentale dei giorni d’oggi siano dei deficienti? Io non ci voglio credere, eh, ma altrimenti non si spiega perché raschiare fino all’osso ogni forma di difficoltà contenutistica fino a creare un omogeneizzato facilmente somministrabile a fruitori intontiti da contenuti video non superiori ai venti secondi, che non solo non allenano la soglia dell’attenzione, ma magari l’abbassano pure.
Di parole sulla serie probabilmente ne sono già state spese. Per questo proveremo a focalizzarci su alcuni spunti di riflessione che possono rappresentare la cifra di questa involuzione, evitando di approvare ai lidi della recensione canonica.
Busillis primo: sul sesso di Andromeda.
La nuova serie de “I Cavalieri dello Zodiaco” nacque già sotto una cattiva stella – pardon costellazione o forse cosmo -, avvolta da un tornado di polemiche legate alla scelta “politica” di cambiare il genere di Andromeda – ora Shaun, come la pecora, a questo punto tanto valeva lo lasciassero Shun, in originale – da uomo a donna.
(Inutile disclaimer: il successivo paragrafo non rappresenta un’invettiva contro i personaggi femminili, né contro l’ideale della donna forte). La polemica era pretestuosa, in quanto animata dalla presunta sacralità – al limite del feticistico – per l’opera originale.
Il punto non è rimarcare l’intangibilità dell’anime o del manga, per quanto – a mio modesto parere – qualora si volessero introdurre nuovi modelli di comportamento o personaggi che fungano da ispirazione sarebbe sempre meglio inserirne e scriverne di originali, senza rimaneggiare i precedenti.
Inoltre, alla luce dei tanti difetti del prodotto Netflix il genere di Andromeda è l’ultimo dei problemi.
La riflessione più interessante è, invece, la fuga dalle sfide di significato. Andromeda donna è una scelta ruffiana, probabilmente, ma soprattutto semplice se si ragiona in termini di sforzo intellettuale. Insomma, uno dei tanti modi per ineducare alla riflessione o – ancor peggio – di educare all’inettitudine.
Esiste in fisica una teoria detta “teoria della complessità”, è un metodo di analisi dei sistemi complessi, nata sotto la spinta rivelatrice e rivoluzionaria dell’esistenza della quarta dimensione – “spazio-tempo”. Infatti, abbandonata la credenza delle “sole” tre dimensioni, bisogna accettare la complessità e profondità di ciò che ancora non conosciamo. Bene, Andromeda era un personaggio complesso. Shaun è “solo” donna. Ricondurre al (solo) binario, ciò che – in precedenza – era sfaccettato.
Mi spiego meglio, non che la serie originale fosse scritta dalla Montessori, tuttavia la figura del cavaliere di Andromeda ci aveva instillato una certa inconscia accettazione dell’inconsueto, disinnescando molti stereotipi di ipertrofica “mascolinità tossica”.
Anche un uomo poteva essere fragile e sensibile.
Anche un uomo poteva essere pacifico nonostante i grandi poteri.
Anche un uomo poteva essere clemente di fronte agli sconfitti.
Anche un uomo poteva vestire di rosa.
Anche un uomo poteva piangere.
Metabolizzati questi aspetti, potevi interrogarti sulla sua identità di genere, sui suoi gusti sessuali. Ma ciò posto, alla fine, tutto era superato dal fatto che Andromeda era uno dei nostri e non importava quale fosse la sua identità di genere, il colore della sua armatura, il suo legame col fratello o che gli piacesse “La Pimpa”, anziché “Dragon Ball”. Era essere umano e cavaliere, solo questo contava. Oltre al fatto di combattere e dominare catene senzienti fighissime, beninteso.
Busillis secondo: il cambio di target è quasi inconciliabile con il concetto di “reboot”.
Passi che l’opera non è a noi indirizzata. Sarebbe bastato, allora, inaugurare una serie totalmente diversa dalle precedenti seppur parte dello stesso universo narrativo o appartenente al medesimo franchise.
Invece, cca nisciun è fess, come direbbero a Napoli, e Netflix non riesce a prenderci per i fondelli. Non si spiega – altrimenti – perché parlare di un riavvio per la serie, perché ripercorrere – almeno in teoria – le vicende originarie ed ancora perché scomodare i doppiatori del tempo che fu, nello specifico – andando a memoria – Ivo De Palma per Pegasus – ora Seiya – e Dania Cericola per Lady Isabel.
Busillis terzo: i Cavalieri non hanno passato.
Un altro elemento caratteristico e distintivo della serie originale era la consistenza del passato dei cavalieri di bronzo. Lo spettatore si confrontava con personalità perfettamente tratteggiate, profonde e sofferenti. Il rapporto spezzato di Pegasus con la sorella maggiore, separati a forza. Il legame edipico di Crystal con la mamma, tragicamente morta ed immensamente amata (tanto da lasciarsi andare – con compostezza stoica – ad immersioni in mari glaciali che facevano rabbrividire alla sola vista). La forza fragile di Andromeda, salvato dalla destinazione inumana e terribile dal protettivo fratello Phoenix (ora Nero, con la pronuncia in stile ammerigano). Sirio, allevato a pane e senso del dovere, disposto a subordinare anche la propria integrità fisica – e la propria vista – in favore degli interessi del gruppo.
Nelle nuove incarnazioni, i cavalieri sono marionette all’interno di un grandissimo diorama in computer grafica.
(Parentesi che nulla c’entra, ma che da qualche parte dovevo buttare. Vi ricordate gli iconici, pesantissimi, cubici scrigni delle armature? Ora sono piastrine di militaresca memoria).
Busillis quarto: piatti i caratteri ed inconsistenti i moventi.
Diretta conseguenza dell’aspetto appena analizzato è che, se impalpabili sono i personaggi, assolutamente piatti diventano i moventi dei cavalieri. Potenti animati da fanatismo, divisi tra gli opposti estremismi sposati per puro tifo. La squadra di Atena, ricca e viziata, dotata di una squadra di guardie del corpo in armatura grazie ai petroldollari del nonno e la compagine di un paramilitare, vecchio compagno di impicci e merende di Alman di Thule, che ora fa la guerra a Lady Isabel per ragioni che appaiono più profonde di quelle dei “buoni”: sottrarre l’umanità al giogo degli dei. Ideali quasi illuministici, certo portati avanti attraverso omicidi tentati ed energumeni pompati a doping e tecnologia. Questo sono i nuovi cavalieri neri, montagne di muscoli con armature tecnologiche. Tutti uguali e tutti stupidi, nemmeno lontani parenti dei doppëlganger oscuri della serie originale, riducendo – ancora una volta – ad immediato e semplice ciò che era vivace e stimolante.
L’altro antagonista collettivo è “Il Grande Tempio”, che prova ad eliminare Atena solo per superstizione così sintetizzabile: “L’oroscopo e Nostradamus dicono che Atena porta sfiga, uccidiamola”.
Tutto ciò premesso e considerato, bastano questi spunti, per sentenziare – con la morte nel cuore – che il cosmo della serie Netflix non brucia, trasformandosi non solo in decostruzione di un mito, ma addirittura nel suo depauperamento.