Il Viaggio di Tito – Recensione
Golgota, duemila anni fa. Circa.
Il sole al suo zenit spacca la terra, l’asciuga così bene che ogni folata di vento che prova ad accarezzare il monte, tira su polvere. Quando quei tre sulle loro croci sono abbastanza fortunati, le nubi di terriccio non arrivano abbastanza in alto da finir loro in bocca. Non avrebbero saliva per sputarla via, le labbra riarse non riuscirebbero ad eseguire il movimento corretto.
La crocifissione è sia un’esecuzione, sia una tortura. La morte non arriva veloce a pretendere ciò che è suo. No. Sta li, seduta su una roccia, ad attendere. Ad osservare. Il piccolo sostegno per i pedi dei condannati, non è un atto di pietà. Sta li per fa si che l’uomo crocefisso prolunghi la sua agonia. Il corpo segue l’istinto e lottando per sopravvivere fa leva, ma se non lo facesse il peso, vista la posizione con le braccia aperte, porterebbe a comprimere i polmoni causando in breve tempo una morte per asfissia. E questa ben inteso, arriva lo stesso, ma solo quando si spezzerà la voglia di esistere. Solo allora la mietitrice si metterà a lavoro.
Dovete scusarmi per questo pezzo di carne cruda – anche perché lo spirito del fumetto che stiamo per affrontare non parla in modo altrettanto sanguinolento – ma trovo importante l’essere a conoscenza del fatto che un uomo crocefisso ha tutto il tempo per imprecare e pensare. Ritrovare nella mente i passi della propria vita, soffermandosi su quel motivo di orgoglio o su quel rimpianto, oppure, in ultimo, chiedersi chi possa ricordarsi di lui.
Nello specifico Tito, che è il ladrone buono alla destra di Gesù Cristo, non si trova in una situazione particolarmente fortunata, sotto il punto di vista della memoria futura (e neanche dal punto di vista di rimanere vivi, fare cose, conoscere gente): alla sua destra, agonizzante, c’è qualcuno che è la rockstar dei messia, il Jimi Hendrix delle religioni, quindi trovare una luce su quel palco non sarà propriamente facile.
Ma ne Il Viaggio di Tito, gli occhi della platea sono tutti per lui. Emiliano Angelucci immagina e Filippo Rossi con Giorgio Carta reinterpretano a fumetto, l’ipotetica vita di un non protagonista all’interno di una delle storie più celebri di tutti i tempi, una di quelle che è riuscita ad influenzare l’intera società occidentale nei successivi duemila anni. Quella di Tito è, dunque, quello che in termini da moderni fruitori di internet, definiremmo “uno spin-off della Bibbia.
Fabrizio De Andrè ce ne ha già raccontato un frammento, usando lo scenario del Calvario come leva per esaminare la zona in colore sfumato che rappresenta la divisione fra giusto e sbagliato, parlando ne Il Testamento di Tito, con la sua poesia schietta, di come il travaglio fra morale e legge – come quella di Dio, “tre volte inchiodata nel legno” – sia ancora oggi lungi dal terminare.
Il Viaggio di Tito invece offre un’ulteriore lettura, spingendosi a comporre un mosaico di azioni e reazioni di fronte agli elementi caotici dell’esistenza. Tito non vive una vita ordinaria, ma è un ricettacolo di avvenimenti eclatanti che compongono la sua crescita, pezzo dopo pezzo.
Uno di questi è l’incontro col soldato romano Terenzio che, ascoltate per puro caso le vicende di Tito, decide di metterle per iscritto. E’ proprio Terenzio sarà il secondo protagonista, anch’esso defilato dagli accadimenti principali eppure ricco di un vissuto che vale la pena essere raccontato, come d’altra parte è quello di tutti noi: siamo libri ambulanti, che spesso non sanno di esserlo.
Terenzio è un omonimo del commediografo di un paio di secoli prima, che fece bandiera dell’idea di humanitas, esaltando il concetto di vicinanza, intellettualmente e spiritualmente di un individuo con i suoi simili. Ed in questo punto ho trovato il fulcro dell’opera: due mondi che si sfiorano appena, per pochi attimi, come quelli dei protagonisti, riescono a trovarsi lungo un percorso totalmente diverso, dove non ci sono posizioni inamovibili. Se Tito non è annoverabile fra gli innocenti, al tempo stesso non è spinto nelle sue azioni dal solo egoismo. Spiegare il motivo per cui venga ritenuto il buon ladrone, è, in sostanza, descrivere il suo essere completamente umano.
La trama si sviluppa su linee temporali diverse, ben sottolineate dalla variazioni nella colorazione, la quale vira comunque sempre a tinte tenui, rimandando all’idea di un passato distante. Da una parte si vieni guidati lungo gli eventi seguenti alla Pasqua, con Terenzio che sceglie per sé una strada complessa, mosso più dalla curiosità che dalla fede – e nel racconto vengono accantonati tutti o quasi i segni sovrannaturali -, dall’altra si ripercorre il viaggio del Tito fuggiasco, che risale l’Impero Romano trovando nuovi motivi per intraprendere avventure. Bisogna premettere che non è un racconto storico, ma comunque riesce a calarsi in un contesto credibile, che sembra essere frutto di una ricerca da parte degli autori nell’andare ad individuare personaggi, ambienti e piccoli dettagli. Per dirvene una: apprezzo se nelle tavole ambientate in un accampamento romano trovo un molosso dal pelo scuro, è un’attenzione preziosa nei confronti della storia e dei suoi lettori.
La narrazione di Filippo Rossi non si affida agli eccessi, anzi, tutto rispetta un ritmo cadenzato, che non viene mai stravolto. Pur se il protagonista affronta scene di lotta o pericoli imminenti, non è centrale l’atto violento né si respira in nessuna circostanza un clima tensivo. Ogni tavola è protesa verso l’evento successivo, facendo in modo che accada molto in poco spazio. La lettura risulta agevole e scorrevole, sacrificando almeno in parte l’approfondimento di alcuni personaggi di interesse od alcuni passaggi specifici dell’avventura che però avrei preferito veder prendere un respiro più ampio, per capirne la spinta. Ma la scelta stilistica è quella di mostrare e riesce egregiamente in questo scopo.
Giorgio Carta caratterizza i personaggi nei loro volti imperfetti e nelle loro espressioni, non è il dinamismo la ricerca primaria, ma gli attimi dell’azione appesa al pensiero. Sono i dettagli che spesso descrivono le scene, aggiungendo tasselli all’evoluzione di Tito. Il tratto essenziale lascia molto spazio al colore, che come ho detto qualche paragrafo sopra, non cerca l’impatto eclatante, ma la morbidezza delle sfumature acquerello, accentuando la sensazione di corpo unico, sostituendo molto spesso il movimento con l’istantanea.
In conclusione, Il Viaggio di Tito è un fumetto che trova i suoi punti focali nelle idee, nei rapporti, mantenendo una distanza dalla scena ampia abbastanza da mostrare i movimenti dell’enorme formicaio composto da quegli esseri che chiamiamo persone, che ci permette di trovare fra loro molte più similitudini che differenze.
Sono un essere umano, niente di ciò che è umano ritengo estraneo a me.
Publio Terenzio Afro, per bocca del suo personaggio Cremete
Recesound: Il Testamento di Tito – Fabrizio De André