Cobra Kai 3
O di una storia che continua a continuare
Ci sono un paio di cose che ruberei agli inglesi senza starci a pensare.
Una, sono i Pink Floyd. Quelli di ieri, quelli geniali e lisergici, quelli dalle suite di venti minuti. L’altra è un modo di dire che trovo straziante e conciso, disarmante e soprattutto terribilmente musicale: same old, same old. Che corrisponde, per sommi capi, al nostro niente di nuovo.
Il mio duemila e venti, si è chiuso col botto, nel senso proprio che il botto io l’ho sentito. Uno snap secco e di Gwen Stacyoliana memoria, come una frustata: ero a terra, infortunato ad una gamba. Questo, giusto per sottolineare la costanza e l’impegno che ci può mettere un giro di calendario nel triturare la pazienza, mettendo in fila tutta una serie di prove a difficoltà variabile. E di norma, la tempra resiste e si va verso la prossima, non ci si ferma a riprendere fiato – semplicemente perché non dipende da noi, altrimenti, oh, se lo faremmo – ci si toglie la polvere dalla giacca e ci si chiede cosa viene dopo, consci di come sia impossibile scappare dalla ciclità dell’imponderabile per prendere una via totalmente sgombra. Un sentiero senza buche non è di questo mondo, quindi si può soltanto sperare di accogliere il nuovo snap, con un laconico “same old, same old”.
Se fossimo inglesi.
Cobra Kai, nella sua terza incarnazione televisiva che va a chiudere l’ipotetico cerchio narrativo aperto con la serie di film degli anni ’80, stringendo, parla di questo. È un riassunto, a getto continuo, di sé stesso. Già nella prima e fortunata stagione, tolto l’ interessante quanto poco duraturo ribaltamento dei ruoli dove Johnny Lawrence da bullo veniva trasformato in bullizzato – dalla vita – e Daniel LaRusso diveniva un patinatissimo personaggio cui le cose andavano fin troppo bene, la trama non faceva che riproporre se stessa in infinite variazioni sul tema. Il riscatto, pilastro di ogni azione dei protagonisti, si trasformava presto in prevaricazione, fino a quando questo non li spostasse, spesso anche fisicamente, dal dojo dei buoni a quello dei cattivi. Un personaggio dopo l’altro, un punto di vista dopo l’altro. Same old, same old.
Questa terza stagione non aggiunge nulla a quanto detto sopra: alla presumibile crescita del budget, non sembra essere seguita una voglia di sparigliare le carte, o meglio, di farlo in maniera meno ordinata rispetto a quanto fatto prima. È tutto estremamente cadenzato; si prosegue nel viale dei ricordi, dove la prime due serie (o miniserie? Dieci puntate abbastanza brevi non so bene in quale categoria ricadano con gli standard attuali) andavano a prendere di peso i fatti di Karate Kid, in questa invece vediamo pescare personaggi e situazioni da Karate Kid II – La Storia Continua…, in un giro forzatissimo di vite in cui appaiono tutte le comparsate che potete aspettarvi, piegando la trama al cospetto del cameo. Anche ogni colpo di scena è esattamente dove ce l’aspetteremmo, ogni momento emozionale è infilato nel punto preciso dove uno spettatore vorrebbe trovarlo, partendo da così lontano che risulta veramente complicato rimanere sorpresi quando arriva.
La messa in scena è – in alcuni punti soprattutto – quasi imbarazzante. L’assottigliamento dello spessore dei personaggi segue di pari passo la scarsa cura per il dettaglio, così che in brevissimo tempo ci troviamo a vedere un mondo di cartone, dove svetta incontrastata, la figura decisamente più umana di tutte, Johnny: Paperino moderno che al tempo stesso riesce ad essere vittima delle circostanze ed artefice delle stesse. Anche lui, nel pacchetto degli elementi messi al posto giusto in fase di scrittura, è un calderone di cliché, ma questo non riesce a togliergli il carisma che, fra una battuta scontata ed un continuo andirivieni fra uomo-migliore-di-prima e caduta libera, mette comunque sullo schermo. È vero, gli viene consegnato senza alcun indugio il trono e lo scettro dell’eroe moderno, ma mi verrebbe difficile negare che se lo meriti, o che non si senta l’esigenza di porsi sullo stesso suo piano emotivo.
A nulla serve poi il tentativo, goffo, di rendere tridimensionale il personaggio di John Kreese. Martin Cove che lo interpreta, è il perfetto villain cui, probabilmente, sarebbe stato anche meglio sottrargliela, una dimensione. È un punto fermo in una storia di mutamenti scanditi dal suono dei ceffoni.
Probabilmente ho messo in campo talmente tanti di quei presunti difetti, che starete pensando quanto possa essere stato disturbato dalla visione.
Beh, non proprio. L’ho divorato nel minor tempo possibile.
E per spiegarvi il perché, ho bisogno di portarvi, per qualche altra riga ancora, nel mondo impossibile dove non si inciampa mai.
NEL FRATTEMPO, IN UN’ALTRA DIMENSIONE…
Ho ricominciato, con l’anno nuovo, a guidare, appena la gamba è andata meglio. Non è che abbia dimenticato come si fa, dopo soli venti giorni. Però la batteria dell’auto non era così convinta nel voler ripartire e devo ammettere che l’impegno mentale nel predispormi a fare cose che i miei muscoli già dovrebbero saper fare, non è stato poi così trascurabile. Mi sono reso conto, in pochi centinaia di metri, di mettere nello spazio compreso fra gli specchietti retrovisori, una particolare attenzione.
Ora immaginate un attore che dopo quasi trentacinque anni, decida di riprendere un ruolo, non fra i più importanti della storia del cinema. Immaginatelo incontrare il suo personaggio, come fosse un amico che non si vede da tanto. L’attore che chiede con un sorriso positivo “Hey tu! Come stai?”. Ed il personaggio, con la faccia stanca ed emaciata come solo le memorie messe in un cassetto sanno essere, riponde: “Same old, same old.”. Ecco, quanta attenzione dovrà metterci quell’attore, per ricominciare a guidare?
Ora trasportiamo tutto in un universo parallelo, un universo dove gli schemi di un Oronzo Canà cosmico funzionano alla perfezione, limpidissimi. Dove ci sono solo lunghe lingue d’asfalto lisce e imperturbabili. Chiamiamo questo posto Terra 5-5-5.
In Terra 5-5-5, possiamo escludere che l’attore riprenda in mano quel ruolo solo per cogliere l’occasione di salire sulla cresta dell’onda: no, lo fa esclusivamente per voler recitare proprio quella parte.
In questo mondo, la sceneggiatura è un manuale di come si compone un conflitto, non è un modo scontato per arrivare al cliffangher della puntata. In questo universo, ogni dannato ritorno di un personaggio, è un scelta voluta, che non implica budget, ringraziamenti, o menate varie, è tutto parte della storia che volevano raccontare. Così come le scene di schiaffoni – che ricordiamolo, aumentano vertiginosamente di puntata in puntata – sono lì al servizio, non come riempitivo per l’azione.
In questo perfetto, ridente mondo, tutti quelli esterni/giorno pieni di luce bianca, non sono poveri perché diretti in modo sbrigativo. Sono poveri perché vogliono esserlo. Vogliono portarti sul divano, quando facevi sega a scuola e guardavi, annoiato, Lorenzo Lamas andare in motocicletta con i capelli al vento.
E le regole di questo universo, non permetterebbero di dire che sia un’operazione per legarti alla tua nostalgia, ma sia stato tutto messo lì apposta per ridurre ai minimi termini il senso di un martedì mattina, da riempire con una corsa a chi calcia più in alto o più forte, raccontando sempre la stessa storia senza raccontarla mai, cambiandola sempre quel tanto che basta da portare avanti, puntata dopo puntata, quei ragazzoni che dentro di loro, pur non ammettendolo, passano il tempo a dire “Vai Johnny, mena più forte!”. E poi dirselo di nuovo, dopo dieci minuti. Same old, same old.
In Terra 5-5-5, Cobra Kai 3 è un must senza nessuna possibilità di appello. Diretto nel dirti che farà esattamente come da programma, velocemente, prima che sia pronto a tavola.
Se siete come me, che dalla critica traete piacere ma dal piacere anche traete piacere, io un viaggetto in Terra 5-5-5, ve lo consiglio. Se non altro perché, per brevissimi frangenti, a me i due mondi sono sembrati toccarsi, prima di tornare in due dojo diversi, pronti a farlo di nuovo. Same old, same old.