Due chiacchiere con Claudio Nizzi
Da pochissime settimane è disponibile una ristampa gigante de La Valle del Terrore, storico Texone che vide alle matite il leggendario Magnus ed alla macchina da scrivere l’altrettanto mitologico Claudio Nizzi, uno tra gli autori più prolifici e presenti del pantheon di Via Buonarroti dedicato a quel satanasso di Tex Willer. L’occasione era troppo ghiotta per ignorarla. Grazie al supporto della Sergio Bonelli Editore sono riuscito a scambiare quattro chiacchiere con Claudio Nizzi, per ricordare la storia dietro alla gestazione di quel leggendario volume. Ma il cielo notturno era limpido e nessun coyote ululava in lontananza. Il fuoco del bivacco teneva caldo e c’erano fagioli a sufficienza. La chiacchierata che abbiamo fatto è stata molto lunga.
Dopo Gianluigi Bonelli lei è considerato tra i più prolifici autori di Tex, inclusa una lunga militanza come sceneggiatore dei Texoni. Come si è evoluto il personaggio in tutti questi anni e come pensa che possa cambiare ancora?
Nel corso degli anni l’evoluzione di Tex è stata continua, anche se quasi impercettibile agli occhi del lettore. Tex partì come personaggio secondario della casa editrice – allora impersonata dalla sola Tea Bonelli, essendo il figlio Sergio ancora troppo giovane – che puntava maggiormente sul successo dell’eroe di cappa e spada Occhio Cupo, creato da G.L. Bonelli e disegnato da un Galleppini che si applicava molto di più su questo personaggio che sul più trascurabile Tex. Il successo di Occhio Cupo non ci fu, mentre le tirature di Tex restavano decorose anche se non esaltanti, perché negli anni ’50 a leggere i “giornalini” erano solo i ragazzi, che preferivano gli eroi-adolescenti, come il Piccolo Sceriffo, il Piccolo Ranger, Capitan Miki eccetera. Cosa che indusse il vecchio Bonelli a far nascere Kit, il figlio di Tex, e a farlo crescere in fretta in modo che raggiungesse l’età degli altri eroi-ragazzi, forse con la speranza che un giorno potesse prendere il posto del padre; ma non accadde perché il povero Kit è rimasto per sempre oscurato dalla traboccante personalità di quel satanasso di genitore che si ritrova. Comunque la sua nascita non fu del tutto inutile, perché, insieme a Kit Carson e Tiger Jack, entrò a far parte di quel quartetto di pards, legati da un’amicizia inossidabile, che ha sempre mandato in sollucchero i lettori. La sua età è rimasta imprecisata, tanto che Galep si lamentava perché non sapeva se disegnarlo come un ragazzo o come un giovanotto. Un altro passo avanti nell’evoluzione di Tex avvenne quando gli albetti a striscia cominciarono a essere raccolti nel volumetti formato quaderno.
Che da quel momento diventò il “formato Bonelli” da tutti imitato.
Proprio così. Quei volumetti, che avevano la dignità di piccoli libri, fecero fare alla serie un salto di qualità. E siccome il loro successo fu immediato e sempre crescente, autori e editore cominciarono a prendere sul serio il loro eroe “secondario”. Il vecchio Bonelli si concentrò molto di più su Tex che sugli altri personaggi che andava sfornando e cominciò a intessere trame più complesse e mature, scritte con quello stile colloquiale, colorito, ricco di iperboli, di invenzioni linguistiche, tipicamente suo, che ha contribuito a rendere Tex unico e irripetibile. Ma anche prima di Tex i dialoghi di G.L. erano più moderni e arditi di quelli degli altri autori coevi. Tanto che, attorno al 1950, quando ci fu un giro di vite da parte della censura (che imputava ai fumetti il traviamento della gioventù italiana) nelle ristampe si rese necessario lavorare di forbici sui testi e di bianchetto sui disegni.
È il periodo in cui si allungarono le gonne alle giovani indiane e si coprirono le scollature troppo audaci delle sciantose.
Fare il confronto tra “prima” e dopo” è molto divertente. La censura tentava anche di moderare il tasso di violenza ed è rimasto famoso il caso di una biondona che, in un saloon, minacciava un tizio con una pistola. Poiché era disdicevole mostrare una donna che, quantunque sciantosa, impugnava un’arma, nella ristampa la pistola venne fatta sparire ma non fu modificata la posizione della mano e del dito sul grilletto, sicché la povera donna continuava a minacciare il tizio senza avere niente in mano. All’evoluzione letteraria seguì quella grafica con l’entrata in campo di nuovi disegnatori, poiché Galep, per quanto sgobbone, non poteva da solo produrre le 110 pagine che occorrevano ogni mese. Via via entrarono in scena Muzzi, Letteri, Ticci, Nicolò, Fusco, che avevano stili molto diversi da quello di Galleppini. Sergio Bonelli fece la scelta di puntare su disegnatori con una propria spiccata personalità e un proprio stile, piuttosto che servirsi di cloni di Galep che sarebbero stati facilmente reperibili nel sottobosco fumettistico dell’epoca. Fu una scelta vincente. I lettori accolsero senza traumi la novità, abituandosi ben presto a un Tex che da una storia all’atra cambiava faccia. Solo nel caso di Fusco storsero il naso e fecero fatica a digerirlo per il suo disegno troppo moderno e “diverso”. Personalmente, era tra i miei preferiti. Sergio Bonelli, che lo aveva fortemente voluto, “rubandolo” alla casa editrice Universo, lo ha sempre difeso a spada tratta. Era riuscito a convincerlo a disegnare la faccia di Tex più simile a quella di Ticci (prima gli faceva un volto un po’ troppo anonimo), ma non è mai riuscito a ottenere che lo disegnasse con il collo meno taurino e le gambe più lunghe.
Immagino che ci siano molti retroscena riguardo ai disegnatori. I quali, tra l’altro, andavano sempre crescendo di numero.
In realtà per decenni il numero di disegnatori restò limitato ai “classici” già citati, ai quali si aggiungeva ogni tanto qualcuno, come Monti, ma con lentezza. Quei disegnatori producevano molto perché avevano conosciuto la fame della guerra e la micragna del dopoguerra, e adesso che avevano un lavoro ben remunerato non gli sembrava vero di poter guadagnare, quindi ci davano dentro. La musica cambiò quando cominciarono a moltiplicarsi le edizioni di Tex, con la nascita dei Texoni, degli Almancchi, dei Maxi e via dicendo. Piccolo inciso: il primo Texone era stato realizzato quattro anni prima della sua pubblicazione ed era nato per finire sulla serie mensile. Buzzelli, secondo Sergio, poteva essere tranquillamente affiancato a Galep (soprattutto) e agli altri, avendo un classico stile all’italiana, alla Walter Molino. Ma Buzzelli spinse troppo il pedale sulla caratterizzazione di Tex, che, al contrario di quello degli altri disegnatori che lo ritraevano con un volto immobile, “recitava” troppo, sfiorando quasi la macchietta (prima della pubblicazione molti volti furono ritoccati). Sergio non ebbe il coraggio di pubblicarlo, temendo di scontentare i lettori con una proposta troppo fuori dalle righe. Così lo mise nel cassetto dove restò per quattro anni, fino a quando, nel quarantennale di Tex, gli venne in mente di pubblicarlo come “Albo speciale per i 40 anni di Tex”, che doveva restare un pezzo unico, cosicché anche i lettori più tradizionali non avrebbero avuto motivo di prendersela troppo. Poi si sa come andarono le cose. Il primo Texone ebbe un tale successo di vendita che Sergio decise di produrne un altro per l’anno dopo. Quell’estate ero al mare a pancia all’aria, quando Decio Canzio mi chiamò per dirmi di trasformare la storia di Giolitti (che stavo scrivendo per la serie mensile) in un Texone che avesse la stessa lunghezza del primo. Io tagliai dove si poteva tagliare e alla fine la lunghezza fu di 226 pagine, due più del Texone di Buzzelli.
Lei scrisse i primi 21 Texoni, con l’eccezione del n. 12, Gli assassini, che fu scritto da Mauro Boselli e disegnato da Font…
Il Texone di Font non volli scriverlo perché mi trovavo in un periodo di affaticamento, ma soprattutto perché non mi erano piaciute le prove che Font aveva presentato.
Tuttavia ne aveva scritti uno all’anno per vent’anni. Poi, dopo il n. 21, Il profeta hualpai, disegnato da Mastantuono, le sue apparizione diradano di colpo. Firma ancora il n. 26, Le iene di Lamont, disegnato da Garcia Seijas, poi più niente. Come mai?
Beh, dopo venticinque anni in cui avevo chiesto molto a me stesso, cominciavo a sentire la stanchezza. In più aggiunga che erano nati degli screzi con Sergio Bonelli, che, per colpa del carattere orgoglioso di entrambi, non avevamo saputo ricucire. Da qui la mia decisione di smettere di scrivere Tex, visto che ormai esistevano altri sceneggiatori in grado di mandarlo avanti. In primis Mauro Boselli, che pochi anni dopo sarebbe diventato il curatore della serie. C’è una curiosità che riguarda Le iene di Lamont. Anche questo era stato realizzato diversi anni prima, ma Sergio l’aveva tenuto nel cassetto perché “è una storia con troppe donne”. Queste donne erano la giovane protagonista (che nelle mie intenzioni doveva essere un’efebica fanciulla di sedici anni, mentre Seijas la dotò di un seno da maggiorata), una sua amica, la madre dell’amica e la perfida (ma bella) matrigna. Quando si trovavano insieme parevano davvero uscite dalla pagine di Piccole donne, come Sergio cominciò a chiamare ironicamente questa storia. Poi – grazie alla mediazione di Decio Canzio, il grande saggio della casa editrice – si giunse a un compromesso: avrei trasformato l’amica della protagonista e sua madre in un amico della protagonista e suo padre. Fatte sparire due donne su quattro, la storia poté essere pubblicata.
Lei ha sottolineato la novità rappresentata dall’arrivo dei nuovi disegnatori al fianco di Galep, ma un altro notevole passaggio evolutivo immagino sia stato l’ingresso di nuovi sceneggiatori. Prima Sergio Bonelli, subito dopo lei, quindi Mauro Boselli e tutti gli altri.
Fu indubbiamente un passaggio importante. Ormai avanti con gli anni, G.L. Bonelli perdeva colpi e Sergio dovette correre in suo aiuto. Lo fece perché si trattava di salvare una pubblicazione da mezzo milione di copie, ma lui, come autore, non “sentiva” il personaggio di Tex. Preferiva gli antieroi, i tipi un po’ scalcinati come Mister No, che vengono spesso strapazzati dalla vita. Quindi era consapevole di scrivere un Tex diverso da quello del padre: meno sicuro di se stesso, meno spaccone, meno manicheo, più vulnerabile. Dal punto di vista formale i suoi dialoghi erano molto più simili a quelli di Mister No che a quelli di Tex, non riuscendo a replicare il “parlato” paterno se non nelle forme esteriori, come le esclamazioni più tipiche. Inoltre faceva un uso frequente delle didascalie descrittive (per esempio nel corso dei viaggi), come in Mister No e in Zagor. Però aveva il merito di tenere Tex sempre in scena, come il padre, senza perdersi in rivoli secondari, e il suo grande mestiere gli permetteva di costruire comunque delle storie avvincenti, anche se poco “bonelliane”. Avrebbe fatto volentieri a meno di scriverle, ma in quel momento non aveva scelta. Poi, come ebbe a dire in un’intervista, “a darmi una mano arrivò un angelo dalla casa accanto” (cito a memoria). L’angelo ero io e la casa accanto era la redazione del Giornalino, che distava non più di cento metri dalla redazione Bonelli.
Così arriva il suo turno di correre in soccorso del creatore di Tex. Come avvenne il suo arruolamento per un personaggio che fino a quel momento era stato prerogativa esclusiva dei Bonelli?
Arrivai a Tex nel 1981, dopo avere per un decennio collaborato intensamente con Il Giornalino. Per questo settimanale rivolto ai ragazzi avevo scritto svariate serie, tra cui una western, Larry Yuma, che aveva attirato l’attenzione di Sergio Bonelli, lasciandogli intravvedere la possibilità che un giorno avrei potuto dargli una mano per Tex. L’occasione capitò nel 1981, quando, lasciato il lavoro fisso che avevo avuto fin’allora, fui assunto dal Giornalino come responsabile dei fumetti senza obbligo di presenza in redazione. Andavo a Milano solo il mercoledì per controllare le tavole arrivate nel corso della settimana e incontrare i collaboratori. Un giorno, prima di riprendere il treno per Modena, passai in via Buonarroti senza essermi annunciato e chiesi di poter parlare con Sergio. Trenta secondi dopo arrivò Decio Canzio che mi disse: “Sergio è al telefono, ma viene subito” e mi fece accomodare in un salotto dove mi tenne compagnia. “Devi sapere che Sergio è sempre al telefono” mi spiegò col suo sorriso ironico che per i successivi venticinque anni avrei visto tante volte. Sergio arrivò subito dopo. Gli spiegai che mi ero liberato del posto fisso e avevo più tempo a disposizione da dedicare ai fumetti. Parlammo a lungo. Quell’incontro fu un’anticipazione delle chiacchierate che da quel momento avrei fatto con loro ogni mercoledì mattina, prima di andare alla redazione del Giornalino. Pensavo che quella prima visita dovesse servire solo per fare conoscenza, ma Sergio, prima che me ne andassi, mi strappò la promessa di inviargli in tempi brevi un soggetto di Mister No. Non potevo entrare nel pantheon di Tex senza prima aver dato prova di saper reggere le storie lunghe, visto che fino a quel momento per la “casa accanto” avevo scritto solo storie brevi. Scrissi due storie di Mister No, poi passai a Tex.
L’idea di mettere mano a un personaggio così carismatico non la spaventava?
No, perché lo sentivo abbastanza nelle mie corde, anche se da ragazzo non lo avevo mai letto. Infatti, per riguadagnare il tempo perduto, dovetti rileggermi l’intera serie che era arrivata attorno al n. 250. Sergio si raccomandò che prendessi a modello le storie del padre e non le sue, perché il vero Tex era quello paterno. Così cercai di carpire i segreti del dialogo bonelliano, a cui è dovuta buona parte del successo di Tex. Dialogo che non è composto solo dalle frasi e dalle esclamazioni più celebri che i lettori conoscono a memoria, ma dalla scelta di un linguaggio apparentemente casuale e invece molto mirato, con quel tono popolaresco infarcito di proverbi e frasi fatte, tratte dal parlato di tutti i giorni, che danno al dialogo un sapore casareccio, come quello che il suo coetaneo e quasi conterraneo Guareschi metteva in bocca ai suoi eroi della “bassa”. Oltre al dialogo studiai le trame, che avevano tutte lo stesso schema, differenziandosi solo per l’ambientazione. A quel tempo Sergio Bonelli considerava Tex un giocattolo delicatissimo, da trattare “con le molle lunghe un miglio”. Era la pubblicazione che teneva in piedi la baracca (come oggi, del resto, pur con una tiratura molto inferiore). Sergio temeva che la scomparsa del classico “Text by Bonelli” all’inizio di ogni storia potesse far pensare ai lettori di trovarsi tra le mani un testo apocrifo e se ne allontanassero. Così mi chiese se per un certo periodo accettavo di non firmare le storie. E io, allettato da un pingue compenso, disse di sì, salvo pentirmene quando mi accorsi che passavano gli anni e Sergio non decideva mai di porre fine al mio anonimato, che durò per un intero lustro. Il mio nome apparve solo nel 1988, sul primo Texone, quello di Buzzelli, e da quel momento anche sugli albi mensili. Però, per mitigare l’impatto sui lettori Sergio impose la scritta “sotto la supervisione di Gianluigi Bonelli”, quando il realtà il vecchio G.L. era ormai lontano le mille miglia da Tex. Altri tempi. Oggi la musica è diversa!
Veniamo all’oggi. Cosa pensa della piega che ha preso il personaggio?
Già nel 1981, al mio arrivo in Bonelli, Sergio commentava che con Tex si era ormai raschiato il fondo del barile, per dire che erano già stati sfruttati tutti gli spunti possibili e per non ripetersi bisognava fare i salti mortali. Ma, in realtà, quanto era negativa la ripetizione nelle storie di Tex? E se i lettori avessero voluto proprio questo: ritrovare ogni mese Tex uguale a se stesso, come un amico che conoscevano a fondo e con cui non si stancavano mai di intrattenersi? Ripetersi o rinnovare? Questa domanda mi ha accompagnato per tutti gli anni in cui ho scritto Tex. Non era facile dare una risposta. Poi furono gli eventi della vita a decidere. Nel 1992 la stanchezza mi fece cadere in un periodo di depressione che da un giorno all’altro mi rese incapace di scrivere una sola riga. In quel momento ero il solo a scrivere Tex (salvo qualche sporadico intervento di Sergio), quindi la casa editrice dovette correre ai ripari. Oltre a Sergio, si mobilitò anche Decio Canzio e furono chiamati in aiuto Mauro Boselli e Michele Medda. Quando, qualche mese dopo, ripresi a scrivere, al mio fianco rimase solo Mauro Boselli, che indubbiamente scriveva un Tex molto diverso da mio e da quello del vecchio Bonelli (cosa, quest’ultima, che ho trovato sempre strana, perché Mauro è cresciuto a fianco di G. L., gli ha fatto perfino da segretario). Comunque sia il Tex di Boselli segnò un altro passo nell’evoluzione del personaggio, fino a farlo diventare quello che è oggi.
Lei come giudica il Tex di oggi?
Sono stato lontano da Tex per sette-otto anni (durante i quali, preso da una crisi di rigetto, avevo anche smesso di leggerlo) e solo da tre anni ho ripreso a scriverlo. Prima di ricominciare, per aggiornarmi, ho letto tutti gli albi che avevo saltato, trovando un Tex indubbiamente diverso da quello che conoscevo. Migliore? Peggiore? Non me la sento di giudicare, potrebbero farmi velo l’età e la nostalgia. Farò solo qualche osservazione. Per esempio, Tex non è diventato un po’ troppo pistolero? Mai aveva sparato in contemporanea con le due pistole come fa abitualmente oggi (forse lo aveva fatto nei suoi primissimi anni di vita, quando era ancora un personaggio “secondario”). A me l’uso delle due pistole sembra un arretramento anziché un progresso: un ritorno agli albori del western, ai film di Tom Mix. Altra osservazione: Tex non aveva mai compiuto tante stragi come fa oggi. Qui forse entra davvero in ballo la mia età avanzata, che mi porta a preferire i film western classici a quelli superviolenti di oggi. Può darsi che i lettori odierni richiedano alti tassi di violenza, ma, certo, la violenza è anche una scorciatoia troppo facile per risolvere le situazioni. E ancora: Tex non è diventato un po’ troppo serioso? Non ha perso la sua ironia, come ha perso per strada il suo linguaggio “bonelliano”? Personalmente resto fedele al Tex della tradizione. Da quando ho ripreso a scriverne le storie mi sono messo disciplinatamente sotto le ali di Mauro Boselli, come un pulcino sotto le ali della chioccia. Mauro mi lascia fare, accetta le mie storie (magari dopo una trattativa in fase di soggetto), e mi sembra sostanzialmente consapevole che una storia “classica” ogni tanto non guasta. Personalmente sono convinto che di queste storie vi sia ancora bisogno, cosa di cui trovo conferma nel corso di certe chiacchierate coi vecchi lettori, non quelli digitali, ma quelli ruspanti, che leggono Tex da una vita.
È arrivato da poco in libreria il Texone di Magnus in un formato gigante. Come fu la gestazione di questo lavoro? Roberto Raviola era un disegnatore dal tratto dettagliato e complesso, ma proprio per questo non particolarmente veloce. Può raccontarci come era organizzata la vostra routine di lavoro?
La realizzazione di quel celeberrimo Texone è stata un’avventura. Tanto per cominciare, nessuno in redazione credeva che l’avrebbe mai completato. Era stato lui a offrirsi di farlo e naturalmente Sergio non poteva dirgli di no, ma in cuor suo era convinto che, al massimo, avremmo ottenuto un ventina di pagine da offrire alle riviste d’autore che esistevano allora, come “l’incompiuta di Magnus”. Io scrissi il soggetto e le prime cinquanta pagina di sceneggiatura. Già allora mandavo avanti diverse storie in parallelo, a lotti di 50-60 tavole per volta, in modo da non lasciare mai i disegnatori senza lavoro. Magnus – pensavo – non arriverà mai a disegnarle tutt’e cinquanta. E i primi mesi sembravano dare ragione al nostro scetticismo. Magnus non dava più notizie di sé, sembrava disperso. Poi, quando avevamo ormai perso la speranza di vedere almeno le prime tavole, cominciarono ad arrivarmi dei bozzetti dei personaggi, delle mappe del luoghi e degli ambienti, fatti con una precisione maniacale e corredati da altrettanto maniacali annotazioni. Magnus stava preparando l’universo in cui ambientare la storia. Nel frattempo, stanco di Bologna, calda, rumorosa, piena di distrazioni, si era autoesiliato a Castel del Rio, un paese tra le montagne, nella valle del fiume Santerno, dove contava di restarsene tranquillo fino a quando non avesse portato a termine il Texone. Lei forse ricorderà che uno dei protagonisti della storia era John Sutter, uno svizzero tedesco fuggito in America per motivi religiosi, che aveva creato un vero impero in California, ma era stato rovinato dalla scoperta dell’oro nelle sue terre. Ormai anziano e stanco, si era ritirato in una residenza circondata da un muro di protezione nella selvaggia valle dello Yuba River. Ebbene, per Magnus la valle del Santerno diventò la valle dello Yuba River. Andava in giro col blocco da disegno e disegnava alberi, rocce, squarci di paesaggio. Prima di mettersi a disegnare la storia aveva bisogno di conoscere fin nei minimi particolari l’ambiente in cui si sarebbe svolta. Questo gli avrebbe permesso di lavorare con cognizione di causa e gli avrebbe dato sicurezza. A Val del Rio viveva in albergo e dalla finestra della sua camera aveva sotto gli occhi il castello che ha dato il nome al paese. Da qui l’idea di trasformare la residenza di John Sutter in un castello. E allora, giù mappe dei vari ambienti, planimetrie delle stanze, anche di quelle che non sarebbe mai apparse nella storia, visioni assonometriche dei cortili interni e scorci prospettici del castello, delle sue torri, del suo cammino di ronda visto da varie angolazioni.
Tutto materiale che nessuno ha mai visto.
Per la verità, una parte è stata pubblicata in un libro intitolato Al servizio dell’eroe, editato da Puntozero, apparso nel 1996, a pochi mesi dall’uscita del Texone. Materiale che, come sceneggiatore, finì per mettermi nei guai, perché non ero più libero di muovermi in libertà, ma dovevo adattarmi all’universo che lui aveva costruito. E siccome non finiva mai di creare nuove ambientazioni, decisi di far avanzare la sceneggiatura a piccoli passi, solo quando ero sicuro di potermi muovere su un terreno consolidato. Perchè un conto era descrivere l’attacco finale dei “cattivi” alla residenza di Sutter quando era circondata da un semplice muro, come nelle mie intenzioni, altro conto era orchestrare l’attacco alle mura di un castello.
Nel corso dei sette anni che occorsero per realizzare il Texone, lei si vedeva con Magnus? Vi parlavate?
Ci parlavamo per telefono. Io avevo voglia di andarlo a trovare, ero curioso di vedere come si fosse sistemato, ma dato che i rapporti tra Magnus e la casa editrice erano diventati molto tesi a causa dei suoi macroscopici ritardi, non ci andavo per paura che mi prendesse per una spia di Bonelli che andava a controllare lo stato di avanzamento del lavoro. Mi ripromettevo di andarci quando il lavoro fosse finito, ma non feci in tempo. Quando gli telefonavo presso il suo albergo dovevo chiedere del Professore, e una receptionist dall’accento fortemente romagnolo mi rispondeva che sarebbe andata a chiamarlo. Poi sentivo una voce lontana: “Professore, telefono!”. Lei tornava e mi diceva: “Resti in linea, il Professore scende subito.” In realtà mi faceva aspettare, perché – come lui stesso mi spiegò – quando scendeva nella hall doveva agghindarsi con una vestaglia a quadri uguale a quella che indossava Sherlock Holmes. Sono andato a Val del Rio dopo la sua morte, ho mangiato nel suo albergo e constatato come Magnus venisse ricordato da tutti con grande rispetto e grande affetto. Alla fine, dopo tanto tempo e tante traversie, vinse la sua grande sfida, ma non potè godersi la gioia del successo. Morì pochi mesi prima che il suo Texone vedesse la luce nelle edicole. Lui sapeva da tempo di dover morire e affrontava la cosa con la serenità di chi aveva una certa confidenza col misticismo orientale. Sapeva di avere sacrificato a Tex gli ultimi anni della sua vita, e concludeva: “Dovendo cadere, tanto vale cadere ad Alamo”. L’ultima annotazione scritta di suo pugno sull’ultima vignetta della storia, dove Tex e Carson si allontanano a cavallo, è un balloon che aggiunse a matita sulla testa di Carson, che un po’ girato all’indietro saluta agitando il cappello e grida: “Fanculo Magnus!”
Che personaggio! Tex non è stato anche ad Alamo, per caso? Visto che lei, in una storia, l’ha messo accanto al generale Custer sulla collina del Little Big Horn nel giorno fatale.
Non poteva esserci stato per una questione di date. La battaglia di Alamo avvenne nel 1836, quando Tex era ancora un bambino. Invece di Custer era un contemporaneo.
Spesso le avventure di Tex si sono incrociate con la Storia. Quanto è necessario, in questi casi, mantenere rigore nella veridicità dei fatti?
Nel periodo iniziale di Tex il vecchio Bonelli si infischiava della Storia, tant’è vero che in uno dei primi albi della serie fece apparire perfino un’automobile! Forse pensava che per un personaggio “secondario” non valesse la pena di andare tanto per il sottile, così si prendeva la libertà di spararle grosse. Solo da un certo punto in poi (non so dire quando avvenne questo giro di boa, bisognerebbe chiederlo a certi lettori che conoscono la biografia di Tex molto meglio di me) anche lui ha cominciato a farsi carico di una certa attendibilità storica. Per quanto mi riguarda ho portato Tex al centro di avvenimenti storici solo quando esistevano delle circostanze che rendevano la cosa plausibile. Ho già fatto l’esempio di Custer. Era verosimile che Tex si trovasse con lui sulla collina della morte, avendo già servito ai suoi ordini come guida, e in ogni caso ciò che accadde su quella collina è rimasto in buona parte avvolto nel mistero. Compresa la morte dello stesso Custer. Lo uccisero gli indiani o si suicidò per non cadere prigioniero e venire torturato? Sono stati scritti migliaia di libro su Custer e la battaglia del Little Big Horn, ma nessuno ha saputo rispondere con certezza a questa domanda. È un buco nero nella Storia, in cui Tex si è abilmente infilato. Altro esempio: nella storia Gli uomini che uccisero Lincoln Tex scopre chi furono i congiurati che armarono la mano dell’attore John Wilkes Booth che nel 1865, durante uno spettacolo teatrale, s’introdusse nel palco di Lincoln e gli sparò nella nuca, uccidendolo. Tutti sospettarono che alle spalle di Booth ci fosse una congiura, ma la Storia si limita ad accusare lui. Come avrebbe fatto cent’anni dopo con Lee Osvald, riconosciuto come unico responsabile dell’assassino di John Kennedy, quando molte testimonianze e molti indizi proverebbero il contrario. Insomma, la Storia va rispettata, salvo quando essa stessa ci offre un pertugio da cui entrare per raccontare un’altra versione dei fatti.
Tex è indiscutibilmente il personaggio a fumetti italiano più famoso e riconoscibile, e in qualità di meta personaggio il suo ruolo è cardine per il fumetto nostrano (anche se qualche generazione potrebbe considerare un pareggio con Dylan Dog). Paradossalmente personaggi dotati di una sensibilità più moderna e revisionista (penso a un diretto paragone con Ken Parker) non hanno saputo mantenere le stessa longevità. Qual è il suo segreto?
Premesso che il segreto di Tex resta segreto, posso tentare di trovare una spiegazione a un successo che dura da settant’anni. Lo faccio utilizzando un brano di una lunga intervista che nel 2008 mi venne fatta da Roberto Guarino per il libro Tex secondo Nizzi. “Tra Tex e i lettori è nato un innamoramento che resiste al passare del tempo. Ho già cercato di spiegare in altra occasione in che cosa consista la texianità, quel sentimento di difficile definizione che lega i lettori a Tex, fatto di tante piccole cose che si assorbono leggendo le storie del vecchio Bonelli, attraverso la chiarezza e la linearità delle loro trame e la naturalezza di un dialogo che ha il sapore di quello quotidiano (Carson: “Stavolta hai preso un granchio”. Tex: “Sempre meglio che prendere una pallottola.”), ma che ogni tanto s’impenna in pittoresche invenzioni (”Ho tanta fame che mangerei un manzo intero, zoccoli compresi”). La texianità si assorbe dal carattere del protagonista, dal suo essere sempre sicuro di se stesso e dei valori in cui crede; dall’essere un uomo tutto d’un pezzo che non ha paura di niente, generoso coi deboli, implacabile coi prepotenti; dal forte senso di amicizia che lo lega ai pards, così totale da suscitare nei lettori un profondo senso d’invidia e di partecipazione; dai suoi battibecchi con Carson; dal ripetersi identico delle situazioni: le bevuta al saloon, la mangiata al ristorante (con un menu molto monotono), le cavalcate, il guado, la sosta notturna attorno al fuoco del bivacco, il rito del caffé, le lunghe chiacchierate, sempre con le stesse parole, con le stesse esclamazioni. La texianità è un bagno tiepido in cui il lettore si immerge ogni mese quando apre il nuovo albo, sperando di trovarci quei sapori che ben conosce e che desidera siano sempre gli stessi. Tex ha ormai oscurato il suo creatore e vive di vita propria.” Tutte queste cose non si possono dire di Dylan Dog, che ha altri sapori, più concentrati, più aspri. Tanto di cappello davanti all’ironia che Tiziano Sclavi profonde a piene mani nelle sue storie, ma quando manca il tocco di Tiziano, il personaggio perde sapore, perché, come personaggio, non ha oscurato il suo autore, ma dipende totalmente da lui. Una cosa analoga si può dire per Ken Parker. Chapeau a Berardi e Milazzo, ma il personaggio è talmente condizionato dalla loro presenza, che ogni volta che uno dei due manca (di solito il disegnatore, che per ovvie ragioni non può seguirlo ad ogni passo) il suo fascino subisce un brusco calo. Inoltre, Ken Parker emana un vago odore di snobismo, da personaggio “colto” che si rivolge a lettori di gusto fino, ma lascia indifferenti il grosso dei lettori, che gli preferiscono un eroe più popolare come Tex, che sentono più vicino. Ricordo che anche Gino D’Antonio non digeriva il fatto che la sua bella Storia del West vendesse un decimo di quanto vendeva quel rodomonte di Tex. Non gli andava proprio giù!
Una linea di fumo si solleva sottile dalla caffettiera, graffiando un cielo terso e carico di promesse. La chiacchierata è stata lunga ma adesso il richiamo della prateria si fa più forte. Non resta che ringraziare ancora Claudio Nizzi per le sue parole e dirigersi liberi, verso l’orizzonte.
Hasta Luego.