Dampyr 248: Il licantropo di Matera | Recensione
In una visione diarchica della vita e del divino, odio ed amore sopravvivono alla morte. Questa potrebbe essere la summa della storia, che, per tutto l’evolversi della vicenda, conserva una struttura bifida, contenendo tutto ed il suo contrario: la bella e la bestia, l’inclusione e l’emarginazione, il rifiuto e l’accettazione, la salvezza e la vendetta, il buono ed il cattivo.
Giusfredi, tuttavia, riesce a non vestire i panni del censore, non assumendo un piglio moralista, declinandosi – invece – cronista, fotografando la realtà che mette in scena, non esprimendo giudizi di valore e permettendo al lettore di prendere parte autonomamente, di distinguere il giusto dallo sbagliato ed individuare i “veri mostri”.
Mosè, è un “ragazzo” di quasi cento anni, reso lungamente giovane dal vampirismo che l’ha salvato da morte certa, giudicato meritevole di una seconda possibilità, ma è lupo nell’aspetto, almeno nel giudizio di bigotti e superstiziosi. In realtà è semplicemente affetto dalla sindrome di Ambras – detta anche del “lupo mannaro – che provoca un irsutismo smodato su tutto il corpo. Nella sua lunga vita, rifiutato come un mostro dalla madre naturale, ha trovato una famiglia in una sorta di circo Barnum dell’Italia meridionale.
Odiato e deriso per ciò che è, per la sua natura, non per le sue azioni, vittima della peggior forma di emarginazione.
In questo strano intreccio di odio ed amore, Mosè vivrà due vite, entrambe dal sapore dolceamaro: la prima tra gli anni venti e gli anni quaranta, in cui troverà l’amore di una famiglia adottiva, ma l’odio dei nazisti, ed una seconda, ai giorni nostri, amato da Giulia – una ragazza incuriosita dal suo aspetto e dai suoi buoni sentimenti – ma ancora oggetto dei pregiudizi della Lucania. L’intermezzo è condito di solitudine.
La prima vita rimane legata a doppio filo alla seconda, grazie a legami infrangibili, in grado di sconfiggere il tempo, come il rapporto tra padre e figlio.
Sullo sfondo, la seconda protagonista è la Basilicata, in due incarnazioni simbolo della regione. In primis, Matera, al centro del palcoscenico, secondariamente Craco, che conquista un ruolo tutt’altro che secondario nella narrazione.
Menzione onorevole ad Alessio Fortunato, che riesce a rendere mirabilmente luoghi e personaggi, sublimando la sconvolgente grazia dell’amore puro di due giovani, così come la stupefacente bellezza dei luoghi lucani, rendendo perfettamente l’iconicità dei sassi di Matera, conditi di un profondo tocco noir. Una prestazione artistica impeccabile, in perfetto equilibrio tra orrido ed angelico.
L’albo trasuda, inoltre, profonda padronanza della continuity di Dampyr, collegato al numero 161 – “Mal di Luna” -, attraverso un lungimirante espediente che collega il sud Italia alla Scozia, passando per i popoli celtici e la comunità Arbëreshë.
Infine, un plauso alla capacità di attingere alla cultura pop, senza estremizzare il citazionismo, evitando di tramutarlo in un nebbioso appesantimento della storia, ultimo rifugio di chi non ha nulla da dire. Anzi, la storia è costellata di citazioni e solle-citazioni, lasciate con garbo alle attenzioni del lettore, solo a chi voglia coglierle, evitando che aggressivamente soffochino la centralità della fabula.
Dampyr risulta quindi un espediente per un’avventura che ha molto da insegnare sull’inclusione e sul pregiudizio, ma senza che nessuno si arroghi il diritto di salire in cattedra, magnificamente rappresentata da un tratto grafico complesso, realistico, espressivo che contempla mille sfumature di “colore” tra il bianco ed il nero delle tavole.