Norsemen

Esistono prodotti Netflix Original che evidentemente vengo ritenuti adatti per ogni mercato, che vengono tradotti in ogni lingua, che sono pubblicizzati a più non posso e poi ne esistono altri che non godono di questo favore, che con buona probabilità vengono etichettati come troppo sui generis od inadatti  al pubblico dello stivale. E parliamoci chiaro: vuoi per il tipo di contenuti in tendenza, vuoi per la diffusione ristretta del nostro idioma, la nostra non è fra le prime lingue scelte per il doppiaggio di una serie TV, un documentario od un film straniero, almeno per quanto riguarda le piattaforme streaming. Ed è un vero peccato, perché rischiano di passare sottotraccia diversi gioiellini, come è stato per il sud coreano The Kingdom, o, appunto per Norsemen.

Il presupposto semplice da cui parte la prima stagione è uno sviluppo lineare della trama che fa prepotentemente il verso alla ben più nota, almeno da noi, Vikings. La presentazione dei personaggi si poggia fin troppo su cliché parodistici, alternando brillantezza nel dialogo a caratterizzazioni al limite dello scorretto e dal gusto poco attuale. Ma punto focale su cui viene costruito mattone su mattone l’intreccio narrativo è la dinamica comunitaria, vero fiore all’occhiello della sceneggiatura.
Come fare a ricostruire una serie di dinamiche interpersonali, di problematiche quotidiane che riguardano la vita di un popolo vissuto secoli fa nel selvaggio Nord Europa? Semplice, basta non farlo. Basta apprendere la lezione dei Monty Python ed unire, senza tagli, due epoche sulla carta totalmente diverse. Non siamo noi che andiamo a trovare i vichinghi a casa loro ma sono i vichinghi che vengono trasportati, con tutta la loro brutalità, nel più bieco, duro, marcescente ambiente possibile: un ufficio moderno. Il villaggio di Norheim dove si svolgono le vicende, non è altro che la ricostruzione figurata di una bolgia aziendale, fatta di arrivismi, considerazioni etiche, ascensori sociali dal funzionamento particolare, dove personaggi che parlano un linguaggio attuale, che pensano un linguaggio sociale attuale, si confrontano con quello che è il mestiere dei vichinghi, cioè ammazzare, saccheggiare, sacrificare. Il contrasto così accentuato fra antico e moderno esplode agli occhi dello spettatore in una comicità surreale che può ricordare a larghi tratti Parks and Recreation, pur mancando del suo positivismo di fondo, lasciando, in modo inevitabile, più spazio alle tinte scure,anche nei momenti di demenzialità sfrenata.

Frøya, Olav e Avrid discutono dei grandi temi

Sebbene l’intreccio sia dei più banali e totalmente trascurabile, risulta in funzione dell’evoluzione dei personaggi, che partono per lo più dall’essere delle macchiette comiche, come dicevo poco più su, fino ad arrivare ad essere delle figure sfaccettate, immerse in una luce bluastra dove non ci sono protagonisti definibili come positivi o giusti: la prima stagione che ruota attorno alla difesa del villaggio dall’ingombrante figura dello Jarl Varg (Jon Øigarden), inquieto ed inquietante conte cui anche gli abitanti di Norheim debbono lealtà, funziona da lente d’ingrandimento sulle fasi conflittuali interne, seguendo una linea drammaturgica dove vige una diversa scala di valori etici, ricamata attorno ai rapporti di forza e bisogno delle singole individualità, creando un contesto dove tutto ciò che si muove, si muove per un motivo, per una ragione ben precisa, dove ogni azione deriva da una necessità che in un punto od in un altro della trama, viene portato a galla.
Durante i sei episodi che fungono sia da rodaggio per le meccaniche particolari della serie, sia da vero e proprio portfolio dei protagonisti, viene innescata la miccia che porta i successivi sei della seconda stagione all’insegna della romance surreale e della scoperta. Le situazioni che si svolgono fuori dal villaggio assumono maggiore importanza mentre il dualismo fra Arvid e lo Jarl Varg raggiunge il suo apice, per arrivare alla terza stagione che ripercorre, in un approfondito prequel, le gesta dei nostri vichinghi, delineandone le dimensioni, tirando ogni singolo filo affinché l’arazzo si componga non lasciando nessuna intenzione irrisolta, con una minuzia di particolari che potrebbero, nel corso delle puntate, essere sfuggiti agli occhi più attenti.

Il terribile Jarl Varg

E tutto questo non sarebbe stato possibile senza un’interpretazione sopra le righe di un cast in pieno fuoco. Aiutati di certo da una scelta stilistica che elimina o rende innocua la colonna sonora, il cast si avvantaggia dell’atmosfera teatrale, donando una prova corale che, soprattutto in una serie di stampo comedy, dove spesso si tende all’affezione nei confronti del personaggio a discapito del lavoro dell’attore. Sicura menzione d’onore per Kare Konradi (il pavido Orm), che riesce a tagliare il proprio personaggio su più livelli emozionali, costruendo una maschera dal sapore retró in grado di catalizzare ogni attenzione.

Frøya e la sua sempre elegante collana di peni recisi, dietro di leiil marito Orm

Recuperatela, godetevela ed amatela.

Recesound: Run to the hills – Iron Maiden

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